In questi ultimi tempi si è parlato molto di Elon Musk, Starlink e più generalmente di attività spaziali. È un bene, se si considera la rilevanza del tema e il disinteresse che la stampa ha per lo più manifestato su questo argomento. Lo spazio è tornato prepotentemente alla ribalta e si impone oggi come lo scenario decisivo per la competizione economica e il contrasto militare. È attraverso lo sviluppo della tecnologia spaziale che possiamo oggi disporre di servizi innovativi per l’agricoltura, per l’economia, il monitoraggio delle infrastrutture, l’osservazione dei cambiamenti climatici e la stessa ricerca biomedica. A 60 anni dalla prima “corsa allo spazio” che, tra alterne vicende, ha sancito la supremazia statunitense, la centralità di questo settore è venuta accrescendosi rapidamente mentre gli attori si sono moltiplicati: non più solo USA e Russia, ma anche Europa, India e, soprattutto, Cina.
Propulsore indispensabile alla base di questa tensione ormai emersa alla luce del giorno è l’accelerata corsa all’innovazione tecnologica e l’accaparramento di risorse, spesso molto limitate come le cosiddette “terre rare”. La Cina ha dimostrato una capacità straordinaria nel sopravanzare ormai gli USA e l’Europa in molti settori chiave, dalla fisica alla scienza dei materiali, incrementando a ritmo sostenuto gli investimenti in programmi strategici. In particolare la messa punto delle costellazioni satellitari G60 e GW fornirà servizi Internet a banda larga su scala globale, costituendo una sorta di programma gemello di Starlink. Si ritiene che per il 2030 Starlink e cinesi riusciranno a mettere in orbita circa 14mila satelliti ciascuno. Non è la prima mega-costellazione cinese a essere stata attivata: nel 2024 il progetto Qianfan/Thousand Sails ha già visto i suoi primi tre lanci con 54 satelliti complessivamente, con l’obiettivo di averne circa 600 in orbita entro la fine del 2025. L’alternativa europea è IRIS-2 – assegnato a “SpaceRISE”, un consorzio di tre operatori satellitari europei (SES, Eutelsat e Hispasat) – che prevede una costellazione di 290 satelliti in orbite multiple, con i primi satelliti che dovrebbero entrare in servizio nel 2030.
Come si capisce bene il confronto è impietoso. Pare di ascoltare un dialogo tra don Camillo e uno dei suoi parrocchiani che gli rinfaccia come “voi, reverendo, mi promettete una stazione di servizio. Ma Baffone mi dà un posto come messo comunale”. Il problema sta tutto qui: abbiamo bisogno ora di una costellazione a bassa quota, non nel 2030. Per quell’epoca gli europei saranno ben lontani dal poter competere con queste due costellazioni che, a pieno regime, avranno finito con l’occupare tutto lo “spazio” veramente utile.
Nel frattempo, tanto la Russia che la Cina stanno sviluppando nuove capacità spaziali finalizzate a contendere – anche militarmente – la supremazia degli USA, finora ritenuta inarrivabile. La Cina ha testato un aereo spaziale senza pilota che potrebbe minacciare le infrastrutture satellitari, mentre la Russia sta sviluppando armi nucleari spaziali. C’è di più. Sempre la Cina sta compiendo miracoli nella tecnologia dei nuovi materiali, sfruttando proprio le opportunità offerte dalla microgravità spaziale. La messa a punto di nuove leghe di niobio-silicio – resistenti a temperature superiori a 1.700 C° – ha consentito di sviluppare nuove applicazioni come le pale dei motori turbofan. Più leggeri delle leghe di nichel o titanio comunemente utilizzate oggi e con una resistenza alla compressione tre volte superiore alle alte temperature, i motori realizzati con tale materiale sarebbero in grado di raggiungere velocità ed efficienza operativa impensabili con la tecnologia convenzionale. Brutti segnali, soprattutto se si guarda ai ritardi scientifici e tecnologici accumulati dall’Europa e dagli USA che stanno letteralmente per essere travolti, particolarmente nei settori delle telecomunicazioni, dell’osservazione della terra e della difesa militare.
Fig.1. da Nature (How long will the us be a science superpower, Nature: vol 634, 24 October 2024)
Per recuperare terreno occorre un intervento a più livelli: razionalizzazione delle procedure burocratiche (ormai insostenibili), integrazione verticale dei processi industriali – premiando la competizione e la competenza –, forte sostegno alla ricerca e all’innovazione, puntando sulla crescita di una nuova leva di giovani ricercatori, motivati e preparati. È lecito dubitare che le nostre università siano pienamente consapevoli di questi compiti.
Elon Musk oggi ci offre una proposta che non possiamo rifiutare, a meno di correre il rischio di perdere un treno che non ripasserà. L’avvento di SpaceX è infatti uno spartiacque nel contesto dell’esplorazione spaziale. Tutto comincia nel 2010, con la dismissione del programma Space Shuttle che certificò l’esaurimento di quella spinta propulsiva che aveva portato la NASA a sbarcare sulla Luna. Dopo trent’anni e costi per 200 miliardi, lo Shuttle ha finito con il rivelarsi un sostanziale fallimento. Incapace di trovare una valida alternativa, la NASA ha dovuto fare affidamento ai privati per sopperire a questa imbarazzante carenza. Nel 2008 ha stipulato il primo contratto con SpaceX, la società fondata da Elon Musk, e nel 2012 SpaceX invia la prima capsula sulla Stazione spaziale internazionale. Nel 2017 verranno lanciati due Falcon, mentre nel 2018 è il turno del Falcon Heavy.
Nel frattempo Musk opera incessantemente in altri settori, innovando con Tesla le auto a propulsione elettrica, sviluppando Hyperloop (un treno che può viaggiare a oltre 1.200 km/h), costruendo Neuralink (neurotecnologie) e altre applicazioni che fanno leva sull’intelligenza artificiale. SpaceX nasce da una sapiente integrazione verticale della produzione, con semplificazione delle procedure burocratiche e riduzione sconvolgente dei costi di lancio.
Starlink – la rete di satelliti essenzialmente finalizzati alle telecomunicazioni – è stata resa possibile proprio da queste innovazioni che consentono di portare in orbita 2-4 satelliti ogni 3-4 giorni. Il costo del lancio è così passato da circa 200 a 60 milioni di dollari, mentre il costo dei satelliti da 500 milioni per satellite a 500mila dollari. Fantascienza. O fanta-economia? La disponibilità della rete a banda larga, la presenza dei satelliti e delle infrastrutture a terra permettono oggi a Musk di candidarsi a leader mondiale delle telecomunicazioni. Starlink permetterà di realizzare internet ubiquitariamente, ad alta efficienza e con minime infrastrutture terrestri. Sarà un traino per lo sviluppo e la cultura senza precedenti, visto che oggi la penetrazione media di internet in Africa non arriva al 40%, nell’Asia-Pacifico non supera il 60% e nemmeno in Nordamerica o Europa è totale. La costellazione costituirà il supporto fondamentale della Space economy, che vede realizzarsi la convergenza fra industria spaziale ed economia digitale. Tutto questo si svolge nel mondo reale – dove imperano le leggi del mercato – e questo fa sì che non abbiamo oggi alternative valide, soprattutto per assicurare le comunicazioni in ambito Difesa, come più volte spiegato dal ministro Crosetto. La guerra in Ucraina dovrebbe aver insegnato qualcosa al riguardo.
Il punto critico della strategia di Musk è in due concetti: “riutilizzabilità”, che con il recupero dei vettori permette di abbattere costi e tempi di lancio; e “semplificazione”, limitando la burocrazia, favorendo il trasferimento tecnologico e valorizzando il rischio di impresa che premia il merito. La rivista Nature ha dovuto riconoscere come “whether government regulation actually hinders economic and technological innovation is a complex question, however” (vol. 635, gennaio 2025). Tutto questo era, fino a poco fa, inconcepibile per la NASA, ispirata da politiche finalizzate a procurare un “sostentamento” per una filiera industriale che si era abituata ad un regime di sovvenzionamento. Quel sistema è palesemente inadeguato a sostenere i ritmi richiesti oggi dalla corsa dello spazio. E anche le aziende devono ormai prenderne atto o correranno il rischio di scomparire.
Per Musk l’esplorazione dello spazio è però qualcosa che trascende gli aspetti commerciali per assumere i contorni di un’impresa eroica in cui la ricerca e l’innovazione spaziano dalla biomedicina alla mineralogia. E anche in questo, la creatività del settore privato disarticola il modello antiquato bloccato agli anni 70, impastoiato dalla burocrazia ed alimentato artificialmente dalle sovvenzioni pubbliche che nei decenni hanno acquisito il carattere di un sussidio finalizzato a sopravvivere piuttosto che a conseguire nuovi traguardi.
Considerazioni simili si applicano in Europa, dove le principali aziende – salvo rare eccezioni – hanno perso con la capacità di affrontare i rischi di impresa anche il gusto per l’avventura e la prospettiva di nuovi orizzonti. Questo è un peccato grave in un settore come lo spazio che per sua natura vive di sfide al limite. Questi sono i traguardi – non futuri ma già presenti – rispetto ai quali occorre attrezzarsi e che l’UE non sembra avere colto, stando a quanto ha recentemente affermato Mario Draghi, per il quale “l’ESA e gli Stati membri non sono riusciti a tenere il passo dell’evoluzione tecnologica mondiale”. Questo “passo” va a tutti i costi recuperato se vogliamo tenere testa alla prorompente crescita cinese.
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