L’accordo per la tregua è stato raggiunto, anche se il governo di Netanyahu si è sottratto all’annuncio, ritardando ancora l’approvazione e dando la colpa ad Hamas. In realtà è in atto uno scontro nell’esecutivo che potrebbe portare all’uscita di Ben-Gvir. Ma il vero problema è il dopoguerra a Gaza. Per trovare una soluzione definitiva alla questione palestinese, osserva Ugo Tramballi, editorialista de Il Sole 24 Ore e consigliere scientifico dell’ISPI, l’unica strada, senza alternative, è quella dei due Stati, un cammino che però è disseminato di ostacoli. Devono cambiare sia Hamas che Israele. L’organizzazione palestinese potrebbe rifarsi al modello Al Jawlani in Siria, abbandonando la lotta armata e scegliendo la politica. Ma anche Tel Aviv dovrebbe accettare un ruolo attivo dei palestinesi nella gestione di Gaza (e non solo), pur sapendo che oggi la maggior parte dell’opinione pubblica è contraria alla nascita di uno Stato della Palestina.
L’accordo su tregua e ostaggi è arrivato ed è lo stesso su cui si discuteva l’estate scorsa. Potevano pensarci prima?
Più o meno è la proposta che era già stata avanzata a luglio e forse anche in occasioni precedenti: si sarebbe potuto salvare qualche migliaio di palestinesi e anche diversi soldati israeliani. Però è l’unica soluzione cui si poteva arrivare. Il problema vero resta cosa succederà dopo la tregua, se sarà prolungata. C’è il rischio che ci siano degli incidenti che possano fermarla. Bisognerà vedere se poi si comincerà a pensare a una vera fine del conflitto.
Visto che i punti dell’accordo sono simili a quelli già discussi in precedenza, cosa ha cambiato le carte in tavola stavolta?
Sicuramente l’entrata in carica di Donald Trump, che ora tutti considerano una specie di grande guaritore, di taumaturgo di tutti i problemi del mondo, dal Medio Oriente all’Ucraina, agli scambi commerciali globali. Con il suo modo di parlare sguaiato e con la sua totale imprevedibilità è un fattore in tutti i contesti internazionali. Un altro elemento nuovo è che Hamas esce vincitore da questa vicenda, per il semplice fatto che esiste ancora, anche se è stato colpito, non ha più un leader e non è più organizzato come prima.
È cambiato qualcosa pure sulla sponda israeliana?
Sì. Bibi Netanyahu adesso è politicamente forte, dopo la grande vittoria su Hezbollah e l’Iran e dopo quello che è successo in Siria. La scorsa primavera era ai minimi del consenso popolare, oggi invece è ai suoi massimi: se si andasse domani a elezioni vincerebbe, dicono i sondaggi, con il 30-35%, quanto basta in un sistema proporzionale per ricevere il nuovo mandato dal presidente e fare un governo. Ha meno bisogno o forse non ha più bisogno della guerra per restare in carica. È come quando vinci in borsa: devi disinvestire un po’ per non rischiare di perdere.
Le sue opzioni politiche?
Una di queste potrebbe essere quella di liberarsi dei nazionalisti religiosi, pericolosissimi, che rovinano l’immagine scombinata della democrazia israeliana.
Il nodo da sciogliere, tuttavia, resta quello del dopoguerra. Hamas difficilmente potrà avere ancora soldi dal Qatar e dall’Iran. Sarà comunque più debole?
Occorre fare una distinzione: l’Iran armava Hamas con il proposito di distruggere Israele, ma il Qatar mandava soldi in accordo con le Nazioni Unite e lo stesso Israele, per impedire che ci fosse una grande crisi umanitaria, anche se tutti sapevano che una buona parte dei milioni che Doha faceva arrivare a Hamas veniva investita per costruire tunnel. Il Qatar è un eroe di questa partita, non un assassino, non un responsabile.
Ma come potranno i palestinesi affrontare la fine del conflitto? Come si devono muovere?
Il problema è chi governerà a Gaza. Hamas è stato degradato, ma è ancora lì. Finita la tregua chi gestirà il territorio? Continuerà a esserci l’occupazione israeliana? Una domanda che dobbiamo porci anche se gli israeliani lasciassero fisicamente la Striscia. Prima della guerra non erano dentro, ma si poteva parlare ugualmente di occupazione, perché presidiavano i confini, impedivano ai palestinesi di muoversi. Continuerà così? Verrà concesso all’Autorità nazionale palestinese di entrare?
Hamas dovrà per forza cambiare strategia?
Il modello potrebbe essere quello del nuovo leader siriano Al Jawlani: il suo caso dimostra che ci può essere un percorso diverso dal solito. Anche Hamas, dopo le batoste che ha preso e il fallimento della sua ambizione di distruggere Israele, potrebbe smettere la lotta armata e aderire all’Autorità palestinese (ANP), come Fatah, optare per una trattativa politica, se venisse iniziata. Già in passato aveva cercato di uscire dall’angolo proponendo le hudna, le tregue. Scaduta quella attuale si potrebbe rinnovare per altri sei mesi, un altro anno, dando il tempo di cominciare un negoziato. Il problema è che poi dovrebbe farlo anche Israele e non ne ha nessuna intenzione.
Trump forse ha rovinato un po’ i piani a Netanyahu e alla destra nazionalista, ma dal punto di vista ideologico dovrebbe essere più vicino di Biden alle loro posizioni. Alla fine sosterrà Israele nella politica del muro contro muro?
Va tenuto conto della sua imprevedibilità. Non si sa cosa voglia davvero. L’ambasciatore americano nominato per Gerusalemme, il segretario di Stato, l’ambasciatore alle Nazioni Unite sono tutte nomine filo-israeliane, però a Trump il conflitto con i palestinesi interessa poco: è troppo lungo, troppo complicato. Vuole la pace perché ha in mente di fare business con l’Arabia Saudita. Per questo non è detto che Trump aderisca alle ambizioni israeliane di non vedere nascere uno Stato palestinese, di non aprire nemmeno una trattativa in questo senso.
L’accordo prevede il cessate il fuoco a Gaza, ma le armi smetteranno di farsi sentire anche nella West Bank?
La vera partita adesso si gioca in Cisgiordania, dove aumenterà la brutalità degli attacchi israeliani alle città palestinesi. Anche questo è un elemento da tenere in considerazione.
Sul lungo periodo, invece, ci sono ancora troppi interrogativi?
La comunità internazionale è pronta a fare qualcosa, ma Israele, se dovesse nascere una nuova Autorità palestinese mandata a Gaza a governare, la accetterebbe? Pace significa anche ricostruzione e tutte le ricostruzioni sono anche un grande business, per questo sauditi, emiratini, europei, Italia compresa, si sono già detti pronti a farne parte. Il problema è che restano ancora degli ostacoli politici. Hamas è disposto a cambiare? L’ANP riuscirà a ritrovarsi o sarà ancora guidata da un ectoplasma novantenne come Abu Mazen? Israele sarà disposta a riprendere un processo di pace?
Ma questo processo di pace alla fine dove deve portare?
La via d’uscita finale è la nascita di uno Stato palestinese: sarebbe la vera fine dello scontro, a Gaza come in Cisgiordania, e di tutte le conseguenze mediorientali che il conflitto israeliano-palestinese ha sempre portato con sé.
Per arrivare a questo è necessario che il governo Netanyahu si sfili dalla destra religiosa?
Nemmeno Netanyahu è mai stato favorevole alla nascita dello Stato palestinese e anche gli israeliani che pensano sia la soluzione sono molto cauti a dirlo, perché sanno che è un argomento impopolare: la maggior parte dell’opinione pubblica è contraria. C’è un quadro politico ma anche tutta una psicologia da ricostruire sia tra gli israeliani che tra i palestinesi, ma non c’è alternativa allo Stato palestinese, altrimenti torneranno i fondamentalisti islamici a governare Gaza e gli israeliani faranno la pulizia etnica come i serbi di Bosnia. L’alternativa alla nascita di uno Stato palestinese è il caos.
(Paolo Rossetti)
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