LA GRANDE BELLEZZA/ La storia “vera” che riguarda tutti noi

- Costantino Esposito

Contrariamente a quello che si crederebbe, "La grande bellezza" di Paolo Sorrentino, vincitore dell'Oscar 2014, parla di una storia vera. Il commento di COSTANTINO ESPOSITO

servillo_grandebellezza_gialloR439 Toni Servillo ne "La grande bellezza" di P. Sorrentino (Immagine d'archivio)

Contrariamente a quello che si crederebbe, La grande bellezza – il film di Paolo Sorrentino vincitore dell’Oscar 2014 come miglior film straniero – parla di una storia vera (clicca qui la trama di Sorrentino film THIS MUST BE THE PLACE). Certo, sin dall’inizio, con la citazione dal poeta Céline («il viaggio che ci è dato è interamente immaginario …: è tutto inventato») il suggerimento è quello di considerare il film – e la vita – come nient’altro che una finzione, come il “trucco” per sopravvivere di un uomo che abbia perso il gusto dell’esistere. Ma allora, in che senso è “vera” la storia dello scrittore Jep Gambardella, autore di un unico romanzo scritto molti anni prima, e che ora, a 65 anni – splendidamente e inutilmente portati nel vortice della vita mondana di Roma – vede con sempre più spietata lucidità tutta la disillusione che la vita gli ha riservato?

«Che cosa avete contro la nostalgia? È l’unico svago che resta per chi è diffidente verso il futuro», dice una battura particolarmente agra del film, ed è questo dolente struggimento, ad un passo dal diventare una resa alla vacuità del tutto, coperto dal grande chiacchiericcio dei riti sociali, che permette al protagonista di attraversare il deserto della disillusione e della perdita della speranza. È una ferita profonda, come accarezzata dalla bellezza di una Roma vista sempre nel buio formicolante della notte, o nell’oscurità di un passato monumentale, irrigidito in morte vestigia, e insieme nella purezza quasi verginale, religiosa del primo mattino.

Ma anche questa bellezza sembra indifferente alla domanda che, dietro la maschera un po’ cinica, si nasconde nel cuore ancora vivo – cioè in attesa – dello scrittore. Cerca di capire, Jep, cosa gli sia successo, ma sembra non trovare mai risposte, e dover sempre “lasciar stare”; e così continua a muoversi in solitaria, ma accompagnato da un’umanità malinconica e segnata, come la direttrice nana del giornale per cui scrive, o lo scrittore fallito di monologhi teatrali o la dolce, enigmatica spogliarellista minata da una grave, misteriosa malattia. 

Sembrerebbe dunque che la sorte delle nostre speranze sia quella di trapassare inevitabilmente in disillusioni. Fino a dire, appunto, che tutto in fondo è illusione. Ma la delusione che cosa ci dice? Essa non è solo la sconfitta delle nostre aspettative, ma è come il segno indelebile di quello che aspettiamo. E possiamo aspettarlo perché, in qualche modo, esso ci ha già toccato. Anche Jep era stato toccato, nel momento di grazia della sua giovinezza, dallo sguardo di una ragazza, che era stato per lui la grande promessa di una bellezza che può riempire il cuore e rispondere al suo desiderio di felicità. E quello sguardo riluce ancora, a tratti, nello sguardo di Jep, squarciando la foschia dello scetticismo o il fastidio di chi pensa di aver già visto tutto. In questo sguardo è custodita l’unica cosa interessante da cercare, l’unico tema per cui varrebbe la pena riprendere a scrivere, l’unica promessa per cui vivere, e morire. 

Ma tante volte è per dimenticare questo sguardo, che si chiacchiera a vuoto (come il Cardinale esperto nell'”esorcizzare” il dèmone che abita la mente degli uomini, ma che poi preferisce parlare di improbabili ricette di cucina). Ed è per non ascoltare più questa urgenza del cuore che ci si agita, come i tanti personaggi del film la cui occupazione principale sembra essere quella di stordirsi per sopportare la vita, tacitandola. Ma Jep, no: egli resta sospeso sulla soglia della disillusione, senza mai abbandonare del tutto la promessa da cui la delusione era nata, e senza (ancora) trascinarla nella disperazione.

E quando suor Maria, una “santa” centenaria e un po’ grottesca fa il suo ingresso sulla scena di questo teatro di veri e propri personaggi in cerca d’autore, essa non darà prescrizioni o consigli morali, ma dirà alla sua maniera che la grande bellezza può manifestarsi solo seguendo quell’incontro iniziale della grazia, che ogni uomo ha sperimentato almeno una volta nella vita, innamorandosi, e che qui riaccade nella stupefacente, surreale presenza di uno stormo di fenicotteri rosa in volo verso una qualche loro terra promessa, che sostano un momento sulla terrazza di Jep, con vista sul Colosseo. Perché la bellezza è grande quando ci mostra il significato ultimo per cui siamo al mondo (le nostre «radici», come dice la vegliarda). 

La bellezza è il senso che ci lega a noi stessi e al mondo intero. Essa fa andare il tempo, gli dà appunto un senso, una direzione; e senza di essa noi restiamo come condannati a “perdere” il tempo, sprecandone tutte le occasioni, per il solo motivo che esse hanno perso il loro vero motivo. Per questo La grande bellezza racconta – nella forma di una finzione poetica – una storia vera. La più vera delle storie.





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