FINANZA/ 1. Così l’Italia può “fare causa” alla Merkel

- Stefano Cingolani

La situazione della Grecia sembra non preoccupare i mercati, che in realtà, spiega STEFANO CINGOLANI, aspettano di sapere le mosse dell’Europa, che dipendono dalla Germania

Merkel_AquilaR400 Angela Merkel (Infophoto)

Come mai l’Eurogruppo rinvia gli aiuti alla Grecia e le borse salgono? Una spiegazione è che ormai danno per scontato il default ellenico. Un’altra, in realtà una variante della prima, è che il destino di Atene non appartiene più ai mercati, ma ai governi. La finanza, dunque, passa e aspetta di capire cosa farà l’Unione europea, pardon la Germania, pardon Angela Merkel, perché tutto a questo punto è nelle mani incerte della Kanzlerin.

Ha ragione Martin Wolf sul Financial Times: la Grecia è il canarino nella miniera, se muore lui allora vuol dire che il terribile grisou sta già invadendo le gallerie. Si sente dire: i greci sono inaffidabili, promettono e non mantengono, il voto di aprile getta nuove incognite. Antonis Samaras, leader di Nuova democrazia, probabile vincitore delle elezioni, minaccia di rimettere in discussione gli accordi. A questo punto, l’Ue vuole garanzie scritte: George Papandreou ha già impegnato la propria firma e anche Samaras annuncia di voler inviare una lettera di intenti a Bruxelles per smentire le sue stesse dichiarazioni verbali. Una sceneggiata che abbiamo già visto. Anche con l’Italia.

Ma il problema a questo punto è un altro: quanto è fragile la costruzione monetaria se anche un piccolo Paese il cui debito è pari al 4% del debito europeo, può provocare un così grande sconquasso? L’euro può reggere il default di uno Stato senza avere le ciambelle di salvataggio di ogni moneta che si rispetti? Il fondo è ancora in discussione, e in ogni caso le sue risorse sono ben inferiori al necessario. Tutto il peso grava sulla Bce alla quale vengono messi lacci e lacciuoli nonostante la gestione creativa di Draghi.

La questione greca, dunque, è diventata il pericoloso test di una strategia più generale. Angela Merkel ha ottenuto un risultato importante il 30 gennaio facendo passare il fiscal compact che obbliga tutti al pareggio di bilancio e a ridurre il debito fino al 60% del Pil, con un rigido percorso annuale. Per alcuni è un passo avanti verso una politica fiscale comune, una prova di unità. In realtà, questa sorta di pilota automatico affida a Berlino il pulsante europeo, ma nessuno tra i paesi dell’euro è in grado di condizionare la politica economica tedesca.

Quello che è stato presentato come un disegno di riduzione della sovranità nazionale a favore di una sovranità sopranazionale, in realtà sottrae potere decisionale a tutti tranne che alla Germania. Le nostre sorti così sono legate agli equilibri politici tedeschi, alle decisioni del Bundestag, alla Corte suprema, alla partita elettorale. Andremo tutti avanti così fino all’anno prossimo prima di capire se la Merkel verrà rimpiazzata da uno più falco di lei?

La prova di unità non sta in regole astratte e formali, ma nella volontà politica e nei valori fondamentali del progetto europeo. È scritto nei sacri testi: “L’Unione promuove la coesione economica, sociale e territoriale, e la solidarietà tra gli Stati membri”. Se ci fosse una vera Corte Costituzionale, i cittadini greci, italiani, portoghesi, spagnoli, anziché farsi chiamare “porci” farebbero ricorso contro la violazione del principio di solidarietà, senza il quale l’Unione non esiste. Per molto meno, in America, gli stati del sud crearono una confederazione e proclamarono la secessione nel 1860. Nessuno ovviamente minaccia una guerra civile, anche perché l’Europa ne ha consumate persino troppe. Ma non bisogna sottovalutare che nell’Ue di oggi come negli Usa di allora si pone una questione democratica sottostante alla questione economica e finanziaria.

Lo riconosce pienamente Mario Monti nell’articolo firmato insieme a Sylvie Foulard, deputata europea liberal-democratica, pubblicato da Le Monde e da Il Corriere della Sera. Una “disfunzione” che non riguarda solo gli stati membri, perché “la mancanza di una discussione aperta accredita anche l’impressione di un diktat degli Stati più potenti”. Altro che impressione. Bisogna mettere la questione democratica al centro del dibattito europeo accanto alla querelle sui tagli, le tasse, gli spread. Come vent’anni fa, quando si discusse di Maastricht. Allora, tutti sapevano che regolette tipo il deficit al 3% o il debito al 60% del Pil non avevano nessun valore scientifico, erano lampade per orientarsi nel buio di un percorso nuovo. Simili alle lampade dei minatori per riallacciarci alla metafora di Wolf. Quel che contava era la volontà politica di unire l’Europa mentre crollava l’Unione sovietica e la Germania riunificava se stessa con tutte le incognite e i fantasmi che ciò evocava.

Adesso siamo a un altro passaggio storico. E purtroppo la Merkel e Sarkozy non sono Kohl e Mitterrand. Riuscirà Monti a essere l’Andreotti che seppe mediare tra loro? Perché Maastricht porta anche il sigillo di questa Italia un po’ arruffona e un po’ machiavellica, ma della quale la fredda, cartesiana Francia e la Germania Sturm und Drang non possono fa a meno.







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