La dolce stanchezza

- Pierluigi Colognesi

Solo l’Altro, spiega PIGI COLOGNESI, pur non eliminando la naturale stanchezza di chi lavora non lascia spegnere ma, anzi, rinfocola sempre, il desiderio e il gusto di vivere

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Riprendo il filo dell’editoriale della settimana scorsa. Ero partito dalla definizione che di noi dà una recente indagine sociologica: fragili e iperconnessi. Un altro sociologo ha usato una parola diversa e simile per descrivere la nostra epoca: stanchezza. Anche in questo caso, come osserva Massimo Recalcati in un articolo su la Repubblica del 6 ottobre, siamo di fronte a un paradosso: le nostre vite sono attraversate da una «corrente eccitatoria permanente» – superlavoro, divertimenti diventati obbligatori, risultati da ottenere, capacità personali da dimostrare in continuazione, prestazioni da offrire – e nel contempo sono svogliate, stanche in partenza, in fondo senza un motivo adeguato che giustifichi tutta quella eccitazione. Come prima esemplificazione Recalcati porta il disagio giovanile che «non si caratterizza più per il conflitto vitale tra le generazioni, ma per uno spegnimento del sentimento della vita». Infatti «i sintomi attuali degli adolescenti che si rivolgono allo psicanalista non scaturiscono più dalla dissonanza tra il desiderio e la realtà, ma da una specie di affaticamento del desiderio stesso». Tornano alla mente le profetiche parole di Teilhard de Chardin: «Il pericolo maggiore che possa temere l’umanità oggi non è una catastrofe che venga dal di fuori; è invece quella malattia spirituale, la più terribile perché il più direttamente umano tra i flagelli, che è la perdita del gusto di vivere».

Di fronte a una crisi tanto grave, Recalcati pone la domanda radicale: «La stanchezza che ci affligge oggi non mostra la corda del sogno narcisistico di diventare padroni di noi stessi, di realizzare il nostro nome a prescindere da quello dell’Altro?». L’iniziale maiuscola di quest’ultima parola non è certo un refuso tipografico; per scavalcare la palude della stanchezza non è sufficiente moltiplicare le connessioni con tutti gli altri, che sono stanchi come noi; occorre attingere ad una fonte di energia inesauribile. Inesauribile non perché elimini la naturale stanchezza di chi lavora, ma perché non lascia spegnere, anzi rinfocola sempre, il desiderio e il gusto di vivere.

Per questo il secondo esempio di stanchezza portato da Recalcati – le dimissioni di Benedetto XVI – è sbagliato. Riconoscere l’indebolimento delle proprie energie fisiche e mentali e quindi la loro inadeguatezza a svolgere il compito che si ha è un gesto di grande energia, è esattamente il contrario della eccitazione permanente di chi pensa di dover mettere a posto tutto con le sue forze e dimostrarsi in ogni circostanza come una specie di Superman. È la sicurezza di poter affidare il proprio nome e il proprio compito ad un Altro –e quindi ad un altro – che permette di riconoscere e accettare tranquillamente le proprie inadeguatezze.

Non tutte le stanchezze, infatti, sono distruttive. C’è anche quella – dolcissima e quasi desiderabile – di cui parla Eliot: «L’uomo che durante il giorno ha costruito qualcosa, quando cala la notte ritorna al focolare: per essere benedetto dal dono del silenzio, e prima di dormire si assopisce».

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