Non abituarsi a vivere

- Giovanna Parravicini

Il primo gennaio si è ricordato in Russia l’anniversario di padre Aleksandr Men’, ma GIOVANNA PARRAVICINI ricorda anche la recente scomparsa di Arsenij Roginskij

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Arsenij Roginskij (Foto dal web)

Quando si apre l’anno nuovo mi viene sempre da pensare a padre Aleksandr Men’, di cui in gennaio a Mosca celebriamo l’anniversario. Ma non è una questione di anniversari, bensì di vita, che lui amava e godeva in sovrabbondanza. Pensando all’anno nuovo che ci aspetta, con il suo carico di aspettative, ma anche di trepidazioni e di paure per quello che ci attende, penso sempre alla simpatia, anzi all’amore appassionato di padre Aleksandr per tutti – nessuno escluso – gli aspetti del vivere… Come mi è capitato di leggere recentemente, nelle memorie di un suo parrocchiano: “Aveva il dono dello stupore, di guardare a tutte le cose come se le vedesse per la prima volta, con gli occhi di un bambino che ad un tratto metta a fuoco un fiore, il lume di una candela o un ragno. La sua era anche una decisione cosciente – come diceva lui stesso – di non abituarsi a vivere. E infine, il suo era lo sguardo di uno scienziato, che non aveva soppresso in sé la freschezza della percezione e del senso del mistero. Tutto per lui era legato alla Buona Novella. Non si limitava a contemplarla, ma come un bambino curioso cercava in tutti i modi di toccarla e gustarla, di farne esperienza”.

Quest’anno, sullo scorcio del nuovo anno e del Natale ortodosso che sta per venirci incontro, oltre a padre Aleksandr mi è venuto spontaneo pensare ad Arsenij Roginskij, un altro grande amico che se ne è andato poche settimane fa dopo una lunga malattia. Fondatore e presidente di Memorial, storico ed ex detenuto per motivi di coscienza, anche Roginskij, come padre Men’, è stato un uomo che ha segnato profondamente i destini della Russia nel XX secolo. E non innanzitutto per le sue iniziative sociali e culturali – anzi, le grandiose iniziative sociali e culturali a cui ha dato vita nascevano cammin facendo dalla stessa dote umana che ho visto in padre Aleksandr: il “non abituarsi” a vivere, il riaccendere continuamente una domanda, uno sguardo disarmante, carico di stima e di simpatia al punto da poter sembrare ingenuo, su quello che aveva davanti.

A quello sguardo, forse, dobbiamo almeno in parte anche la vita di Russia Cristiana. Alcuni anni fa, in un momento difficile della nostra storia, quando a crederci eravamo rimasti in pochissimi intorno a padre Scalfi, e anche amici e corresponsabili avevano manifestato riserve e preso distanze, mi ricordo di essere andata a trovarlo, abbastanza disperata e certo molto sfiduciata, nel suo ufficio di Mosca. In quei mesi Memorial era nel mirino delle autorità russe, sull’associazione pendevano pesanti accuse di essere un “agente straniero”, accompagnate a ispezioni e processi, oltre a intimidazioni d’ogni genere. Naturalmente Roginskij era nell’occhio del ciclone. Con tutto questo, ricordo come trovasse il tempo e la forza per ascoltarmi, coinvolgendo i suoi più stretti collaboratori per aiutarci a trovare una soluzione, ma soprattutto esprimendo una tal stima e una tal incrollabile determinazione a sostenere l’attività di Russia Cristiana, l’esistenza della biblioteca che per anni aveva contribuito personalmente, insieme a sua moglie, ad arricchire di volumi, che uscita di lì io capii che bisognava combattere, e che la nostra battaglia aveva una prospettiva. Come poi è stato. Le soluzioni concrete prospettate in quell’incontro non si sono rivelate in seguito praticabili, ma la certezza morale di dover e poter salvare l’esperienza di Russia Cristiana in quel momento mi è venuta dall’incontro con lui, dallo sguardo con cui lui – non credente – guardava alla nostra storia, alla fede e all’amore per l’uomo che aveva animato padre Scalfi a iniziare la strada.

Non credente: eppure a quanti credenti, a me in primo luogo, augurerei il suo stesso desiderio di giungere alla verità, e una volta raggiuntala, di cercarla ancora… Quante volte, mentre con sua moglie esaminavamo i libri acquistati per la biblioteca di Seriate, nel cucinino del mio appartamento moscovita l’ho visto entusiasmarsi per un saggio di Papa Ratzinger o per uno scritto di don Giussani che stava leggendo, mentre aspettava che terminassimo il lavoro, sull’ultimo numero di Tracce in russo… Oppure il suo fremito davanti a un’anziana ex-detenuta per motivi di coscienza, Evgenija Otten, che mentre stava intervistando per stilare la sua biografia, gli aveva chiesto a bruciapelo: “Ma lei crede in Dio?”. A distanza di anni da quella conversazione, ricordo ancora Roginskij allargare le braccia, come davanti a una domanda tuttora bruciante: “Sono rimasto senza risposta”. Una risposta forse gli era venuta mentre, alcuni anni dopo, in un monastero di clausura tra i monti dell’Italia settentrionale, si era sentito dire dalla suora che ci parlava da dietro la grata (eravamo in un gruppo abbastanza numeroso), che in comunità in epoca sovietica avevano pregato per tanti dissidenti, questo e quello, e anche per un certo Roginskij… Ricordo i suoi occhi in quell’istante: occhi di chi si sente raggiunto, anzi preceduto, dall’abbraccio del Padre. E questa stessa storia, senza volerlo, telefonando per caso, ho avuto modo di ripetergliela il giorno prima che morisse.

Padre Aleksandr amava ripetere: “A me nella Chiesa sono cari gli inni sacri, le icone, i riti, ma tutto questo avrebbe un valore effimero, non superiore alle tradizioni degli antichi indiani o egiziani, se io non avvertissi che Cristo è rimasto realmente con noi, se non udissi la sua voce, se non la udissi distintamente, più distintamente di ogni altra voce umana”. Per chi “non si abitua” a vivere, indubbiamente, viene il momento in cui la risposta echeggerà distintamente.

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