SCUOLA/ Senza profondità e bellezza non c’è “saper fare” che tenga

- Giorgio Chiosso

Nell'era del funzionalismo e della supervisione economica sulla scuola, una voce fuori dal coro è quella del libro "Far crescere la persona", curato da Giorgio Vittadini. GIORGIO CHIOSSO

scuola-libro-vitta_R439 La copertina del libro

Quale futuro per la scuola? L’interrogativo è motivo di ricerca e riflessione da parte di grandi istituzioni (Ocse, Unione Europea, Unesco, Banca Mondiale) e di semplici studiosi. La scuola nata nel XIX secolo non sembra più in grado di rispondere in modo adeguato ai cambiamenti che, specialmente negli ultimi 20-30 anni, hanno disegnato nuovi confini e inedite prospettive per la vita sociale, quella economica e le relazioni stesse tra le persone. Da occasione di mobilità sociale e di socializzazione politica (com’era ancora fino agli anni 80-90) la scuola è via via scivolata, d’un lato, verso la convinzione che il sapere sia utile solo se è applicato e, dall’altro, verso l’indebolimento della sua rilevanza sociale (cresce purtroppo la convinzione che la scuola “non serva”).

Questi e altri interrogativi affollano il volume curato da Giorgio Vittadini Far crescere la persona. La scuola di fronte al mondo che cambia (Fondazione per la Sussidiarietà-Itaca, pp. 183) nel quale studiosi e persone di scuola si chiedono quali possano essere il ruolo e la funzione della scuola nell’era della supervisione economica sui sistemi d’istruzione e della comunicazione totale. 

Il focus intorno a cui ruotano i saggi è costituito da una questione tanto semplice quanto decisiva — un vero e proprio bivio epocale — segnalato da Onorato Grassi nel saggio introduttivo. Il bivio cui ci troviamo di fronte può essere così descritto: la scuola ha un compito asetticamente cognitivo — introdurre mediante le competenze alla vita sociale e produttiva — e il sapere va ricondotto nella categoria dell’utilità, oppure essa è primariamente chiamata a concorrere all’introduzione degli allievi a “scoprire la realtà, il suo senso” e a promuoverne “la crescita dell’autocoscienza”, ponendo in tal modo le condizioni anche per un attivo inserimento nella comunità sociale e nell’impresa produttiva? 

Detto in altro modo: vengono prima le competenze e cioè il “saper fare” oppure sussiste un irriducibile diritto educativo delle persone a vivere secondo ragione (cioè dotate di capacità critica), a crescere nella libertà e a contemplare la bellezza? Il funzionalismo tecnoscolastico del nostro tempo non ha dubbi: nell’orizzonte pubblico deve prevalere il criterio dell’utilità.

Gli autori del volume hanno un’idea diversa anche se non pensano all’educazione, beninteso, come a una sorta di attività propria dell’otium contrapposta al negotium. Ma ritengono sia inappropriato (oltre che inefficiente) rinunciare a partire dai bisogni della persona. Attraverso una riflessione svolta su diversi piani — le qualità richieste ai lavoratori dalla cosiddetta “quarta rivoluzione industriale”; l’esame delle caratteristiche del capitale umano alla luce delle più recenti ricerche; le indicazioni di Heckman sul character — gli apporti di Paola Garrone, Giuseppe Folloni, Giorgio Vittadini, Tommaso Agasisti e Piergiacomo Sibiano giungono a una prima e sostanziale acquisizione.

Questa: è semplicistico e riduttivo pensare a una scuola ritagliata solo in funzione di compiti rapidamente spendibili. Dallo stesso mondo dell’economia giungono segnali inequivocabili che già oggi, e ancor più in futuro, saranno richieste e apprezzate le dimensioni umane che possono maturare soltanto mediante l’approccio educativo interpersonale: la coscienziosità, la stabilità emotiva, la capacità di stabilire buone relazioni, la valorizzazione delle esperienze, ecc. insomma le qualità umane comunemente dette “non cognitive”.

Un secondo passaggio del volume scorre in rassegna varie esperienze già oggi in atto nelle scuole italiane, giungendo a documentare che — ben oltre la realtà efficientistica che percorre i documenti ufficiali e che ha segnato la stessa recente vicenda della “Buona Scuola” (testo nel quale non compare mai l’espressione “persona” a fronte di circa un centinaio di citazioni relativi alle “competenze”) — la realtà quotidiana è fortunatamente permeata della convinzione che occorra tenere insieme saperi ed educazione, cura dell’ambiente scolastico e valorizzazione delle esperienze esterne alla scuola (come, ad esempio, l’alternanza scuola-lavoro), strategie efficaci per contrastare l’abbandono scolastico (e aggiungiamo: la mediocrità dei risultati) e potenziamento della preparazione dei docenti. 

La scuola è davvero “buona” quando, prima di essere una struttura organizzata e un insieme di aule e programmi da svolgere, è il luogo dove si incontrano in modo significativo adulti e giovani “sulla base — scrive Luca Montecchi — di una proposta e un consenso reciproco, di una possibile alleanza che entrambe le parti hanno la responsabilità e l’interesse di far crescere, lontani tanto da forme di automatismo quanto di spontaneismo” (p. 102). Educare “è partecipare a una cultura, a un sapere che ci rende capaci di vivere e di convivere da uomini”, scrivono Eddo Rigotti e Carlo Wolfsgruber (p. 143) e compito della scuola, osserva Susanna Mantovani, è “sollecitare la passione per lo studio… passione che non è soltanto desiderio, ma anche sforzo, impegno e qualche volta anche sofferenza” (p. 151).  

La scuola è “educativa” se gli insegnanti, in altre parole, sono capaci di scoprire la realtà insieme ai loro allievi e se hanno l’autorevolezza culturale capace di formulare una proposta. Non semplici amici dei loro allievi e neppure solo smanettatori di pc. Docenti autentici che, sia detto incidentalmente, sono qualcosa anche di diverso e di più dagli insegnanti descritti dal recente Piano nazionale per la formazione degli insegnanti, il cui obiettivo dovrebbe essere quello di “massimizzare il capitale professionale e sociale di tutta la scuola”. Per fortuna ancora tanti insegnanti italiani percepiscono il loro ruolo di educatori, sono disponibili a ripensare la loro formazione, ma hanno qualche legittima perplessità di fronte alla loro riduzione a “capitale professionale da massimizzare”. 

La terza parte del volume discute quale dovrebbe essere l’assetto istituzionale della scuola del futuro. Susanna Mantovani, Luigi Berlinguer, Marco Masi e Luisa Ribolzi affrontano l’annosa questione scuola statale/scuola paritaria. Il futuro vincente della scuola, stando a questi studiosi, sarà quello di chi sarà capace di coniugare autonomia e qualità. 

Queste due caratteristiche, secondo Ribolzi, possono essere garantite forse non esclusivamente ma “sicuramente in modo assai più efficace da un sistema che superi la distinzione fra ‘pubblico’ e ‘privato'”: l’obiettivo dovrebbe essere quello di orientarsi verso un modello istituzionale che prevede “il finanziamento centrale, un’elevata autonomia delle scuole, la possibilità di concorrenza fra scuole pubbliche e private e un sistema di esami esterni” (p. 181). Se non riuscirà a darsi un nuovo modello organizzativo la scuola cederà fatalmente il passo ad altre agenzie formative, alla rete o addirittura a forme educative premoderne nella forma della home schooling. 

Un libro controcorrente, fuori dagli schemi dell’attuale cultura scolastica, che non si compiace di frasi fatte e di schemi precostituiti, ma attualissimo e capace di affrontare complesse tematiche con i piedi per terra.





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