SCUOLA/ E se dicessimo basta alla cotta (adolescenziale) per la Finlandia?

- Giorgio Chiosso

Ricorrente come le rondini a primavera ritorna il mito della scuola finlandese. Questa volta con la proposta di sopprimere le discipline scolastiche. Un errore. GIORGIO CHIOSSO

milano dopo scuola (LaPresse)

Ricorrente come le rondini a primavera ritorna il mito della scuola finlandese. Questa volta con la proposta di sopprimere le discipline scolastiche e affidarsi integralmente a soluzioni didattiche interdisciplinari. Solo così gli alunni sarebbero in grado di familiarizzare con le competenze. Se stiamo alle informazioni fornite in un servizio messo in onda dalla BBC britannica e ripreso dai giornali italiani, le autorità scolastiche di quel Paese sarebbero infatti orientate a impostare l’apprendimento privilegiando le competenze trasversali rispetto a quelle discendenti dalle conoscenze. 

Ogni volta che si parla di scuola finlandese il mondo giornalistico italiano è percorso da un incondizionato entusiasmo. Ma siamo sicuri che la Finlandia sia davvero il modello cui ispirarsi? È sensato comparare la piccola realtà della nazione dei mille laghi (5 milioni di abitanti) con quella italiana (60 milioni) e ragionare come se il differente contesto ambientale e socioculturale non svolgesse influenze e condizionamenti molto diversi? 

Se vogliamo adottare metri di confronto è più opportuno guardare a Paesi più vicini a noi per storia culturale, pratiche scolastiche e stili di vita come, ad esempio, la Francia, la Spagna, la Germania. Ma soprattutto nel confronto non si dovrebbe sottovalutare l’originalità della nostra tradizione pedagogica, attenzione che da noi invece — dietro la fortissima spinta, quasi egemonica — della cultura psicopedagogica anglosassone è da tempo pressoché smarrita. 

Basta citare il caso della pedagogia montessoriana che continua a raccogliere consensi in tutto il mondo, ma in Italia appare poco più che residuale e, salvo poche eccezioni, è addirittura appena ricordata nelle aule universitarie. Per non parlare del silenzio che circonda un’intera generazione di maestri che hanno alimentato con grande fortuna e intelligenza educativa la pedagogia dell’istruzione elementare e popolare (dal maestro di Non è mai troppo tardi, Alberto Manzi a Mario Lodi e all’animatore dell’esperienza di Reggio Children, Loris Malaguzzi), personalità che hanno attratto l’interesse di studiosi stranieri e ora sono quasi dimenticati.

Proprio da questi maestri che non conoscevano la nozione di competenza, ma avevano ben presente che i pochi anni di scuola obbligatoria dovevano servire per tutta la vita viene l’invito a stare bene in guardia dalla tentazione di cancellare il sapere disciplinare per sostituirlo con l’interdisciplinarità. 

Su questo tema è in corso da tempo un serrato dibattito di cui poco trapela nel nostro Paese, dove la competenza è diventata una sorta di bandiera ideologica. Un ampio fronte di studiosi specialmente di cultura francofona è molto dubbioso al riguardo. Per averne un quadro rinvio all’intervento di Marcel Crahay, uno dei più autorevoli esperti di scuola del continente europeo, svolto al seminario dell’Associazione Trellle, La scuola dell’obbligo tra conoscenze e competenze, 2010. 

Le discipline costituiscono il serbatoio su cui fare affidamento per comprendere e interpretare la realtà. Togliere la sicurezza assicurata dalla conoscenza disciplinare non solo rende smarriti gli allievi, in specie quelli del ciclo primario, ma sottrae loro quel patrimonio di saperi cui fare ricorso nel momento in cui si devono risolvere problemi o esercitare il trasferimento di un sapere acquisito. Non bastano i tablet per recuperare le vituperate nozioni.

Gli estemporanei entusiasmi per le novità, presunte o reali, che arrivano da contrade scolastiche più o meno remote, spesso conditi da grandi battage editoriali, non sono quasi mai sostenuti da riscontri sperimentali che confermino la validità o meno dell’innovazione. Ci si innamora della novità a vista come accade per le cotte adolescenziali. Chi ci dice che attraverso la cosiddetta “classe rovesciata” gli apprendimenti siano davvero più efficaci? Siamo sicuri che apprendere per competenze garantisca una padronanza culturale più solida rispetto all’uso critico del sapere? Quali prove abbiamo sull’efficacia duratura delle prassi didattiche digitalizzate? 

Si direbbe che in qualche caso si preferisca lasciare alle spalle sentieri collaudati per avventurarsi su piste appena tracciate piene di insidie senza provvedersi della necessaria attrezzatura.





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