SCUOLA/ Invalsi e valutazione, il brutto vizio di usare l’America solo quando serve

- Tiziana Pedrizzi

Appena qualcuno del mondo anglosassone critica il sistema di testing esterno inglese o americano, molti pappagalli italiani gli vanno dietro. A sproposito. TIZIANA PEDRIZZI

scuola_protesta_invalsi_lapresse_2015 Proteste contro le prove Invalsi (LaPresse)

Est modus in rebus, sunt certi denique fines diceva Orazio. Da quando in rete si trova tutto (e questo, ho controllato, c’è) si può anche usare il latino perché le cose dette in originale sono molto più efficaci. Tradotto: la via di mezzo no?

Insomma, sono ormai anni che, appena qualche singolo o qualche organizzazione o accademia del mondo anglosassone critica (a ragione) il sistema di testing esterno inglese o americano, i soliti laudatores temporis acti (anche questo in rete c’è) italiani si precipitano a citarlo utilizzandolo contro quanto si fa in Italia. Senza dire che si parla di sistemi scolastici in cui semplicemente si esagera con il testing che viene usato molto probabilmente troppo di frequente ed in certi casi ha una ricaduta esclusiva ed automatica sulla valutazione delle scuole oltre che sugli allievi. Usare questi esempi per contestare le attività dell’Invalsi sembra frutto o di scarsa conoscenza o, spiace dirlo, di malafede. La valutazione in italiano e matematica dei nostri studenti viene infatti effettuata 4 e forse in futuro 5 volte nel corso di 13 anni di scolarità e non ha da quest’anno nessuna ricaduta sulla valutazione dei singoli né delle scuole. Anche all’interno del Sistema nazionale di valutazione (Snv) i risultati delle prove Invalsi di una scuola sono uno dei tanti parametri di una valutazione che al momento sembra molto light, senza efficacia se non quella di un auspicabile e del tutto volontario miglioramento e che viene condotta ad una distanza temporale molto dilatata. L’impressione è che bisognerebbe andare a rafforzare questo blando, blandissimo sistema, invece di contestarlo ad ogni piè sospinto.

La differenza fra le culture formative di Uk ed Usa e quelle dei paesi mediterranei è tuttora molto ampia. Noi siamo caratterizzati da un cospicuo patrimonio culturale sedimentatosi nel tempo, dal quale è difficile separarsi almeno a livello programmatico, pur se il modo poco attivo e motivante con cui lo trasmettiamo sembra impedire agli studenti di utilizzarlo nel corso della loro vita di adulti (ed è questo il problema!) La storia per esempio è tuttora al fondo delle preferenze dei nostri bambini e ragazzi. 

Al contrario, i paesi nordici ed anglosassoni sembrano essere caratterizzati da un pragmatismo pervasivo che ha permesso peraltro alle loro società di raggiungere un livello di cultura civile più diffuso, grazie anche ad una precoce alfabetizzazione indotta dalla riforma protestante. In più gli Usa — paese per eccellenza “senza storia” — hanno scelto con Dewey da ormai un secolo un progressismo pedagogico attento ai metodi e non alla trasmissione dei contenuti, nell’ipotesi che l’educazione consista nel trar fuori dall’uomo ciò che già possiede internamente in termini di capacità ed anche di conoscenze e non nell’imporgli dall’esterno (della storia) nozioni che non saprà profondamente assimilare e fare fruttare.

E’ una scommessa in corso e la presa di posizione degli esperti interpellati dal Naep — un Invalsi americano molto più potente — andrebbe vista essenzialmente come un corretto tentativo di utilizzare quanto c’è di positivo nel modello nostro. Ma anche noi dovremmo essere capaci di cogliere a nostra volta quanto c’è di altrettanto positivo nel modello anglosassone, e cioè la ricerca della motivazione rispetto a quanto si apprende perché lo si utilizza per crescere rispetto alle proprie “competenze”.

Invece di condurre battaglie regressive frutto di un autocompiacimento cieco, bisognerebbe che il mondo della scuola guardasse con attenzione e sostenesse la nascita di nuclei di giovani ricercatori, di accademici che approfondiscono a livello scientifico questi temi. E’ evidente infatti che in Italia forse il principale tappo al diffondersi prima di tutto nelle scuole di una cultura aggiornata ed equilibrata che sappia davvero preservare il nostro patrimonio storico e culturale innovando, sta nelle università, che non solo formano i futuri docenti ma costituiscono anche il riferimento per la formazione e l’aggiornamento culturale del quadro intermedio. Nelle nostre università vigoreggiano predicatori, microricercatori rigorosamente qualitativi, ma latitano tuttora competenze relative a valutazioni e ricerche quantitative sugli apprendimenti. Oltre che una scelta ideologica un po’ consunta, sembra anche il frutto di una certa pigrizia o arretratezza intellettuale. 

Un tentativo di raccontare e reinterpretare come la valutazione dell’istruzione (sia sulla scuola e sia sull’università) si sia configurata in Italia anche a seguito dell’influenza anglosassone, è rintracciabile nel volume edito da Carocci Valutare l’istruzione. Dalla scuola all’università di Alessandra Decataldo e Brunella Fiore (Carocci, 2018). Le autrici riportano elementi in grado di lasciare comprendere perché un sistema nazionale di valutazione è forse necessario, evidenziando al contempo i punti di forza e punti di debolezza dell’attuale sistema. È un tentativo complesso, tanto più che si cerca di confrontare due sistemi (quello scolastico e quello universitario) diversissimi per natura, attori e obiettivi ma da cui non può che nascerne una riflessione arricchente e costruttiva invece che ideologicamente demolitrice.

Se non si procede su questa strada, non ci si può stupire che il mondo della scuola — che sembra principalmente concentrato sui problemi interni del personale — non riscuota né stima né interesse politico e che sia completamente sparito dalla campagna elettorale o dalle trattative per il governo.





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