SCUOLA/ Da Leopardi a Pavese, quando i libri diventano emozioni

- Valerio Capasa

Invece di “fare” Dante, Leopardi e Buzzati, i docenti dovrebbero far leggere ai giovani ciò che i grandi hanno scritto (e vissuto). La scuola sarebbe diversa

diamanti (LaPresse)

Sopra i banchi di scuola, di solito, si trovano libri. Esistono mattine, però, in cui sono pieni di fazzoletti di carta, con cui i ragazzi si asciugano le lacrime. A volte capita che una poesia ti scoperchi l’anima, e allora a qualcuno brillano gli occhi, e cerca in ogni modo di trattenersi. Mi spiace per gli insegnanti che non scorgono altro che torpore, risposte corrette e distrazione. Con me qualche giorno fa il destino ha deciso di esagerare, mostrandomi una classe intera che piangeva. A singhiozzoni. Anche i maschi più apparentemente superficiali, quelli che diresti che la domanda esistenziale più seria che si siano posti è la formazione del fantacalcio. Da dove zampilla una così irrefrenabile commozione (nell’ora peraltro più improbabile, la prima del lunedì!)?

La sera prima eravamo tornati dai Colloqui fiorentini: quattromila studenti e insegnanti da tutt’Italia facevano i conti con Giacomo Leopardi e il “misterio eterno dell’esser nostro”. Cosa ci sarebbe di strano, a parte i numeri, a parte l’aula un po’ affollata? In Italia ogni anno sono molto più di quattromila quelli che a scuola “fanno” Leopardi, eppure non si commuovono. Ed è anche ovvio: innanzitutto perché “fanno” Leopardi anziché leggere i suoi Canti; in secondo luogo perché non vengono sfiorati dal “misterio eterno dell’esser nostro”. Invece è questo che può succedere con la poesia: un ragazzo, duecento anni fa, è penetrato nelle “segrete gallerie dell’anima”, per dirla con Antonio Machado: “L’anima del poeta / si orienta verso il mistero. / Solo il poeta mirare / può quel che sta lontano / dentro l’anima”, e riesce a dire, con le parole che sono sue, le domande che sono mie.

Allora Nicole può scrivere: “Se l’uomo è finito, in quanto muore, perché desidera l’infinito? Perché non riesce ad accontentarsi dei diletti che la vita ci offre? Avrei voluto che qualcuno mi aiutasse a immedesimarmi ulteriormente: la speranza non viene placata se abbiamo compagni di strada. In questi giorni ho capito che intorno a me ci sono dei compagni che potrebbero aiutarmi. I Colloqui fiorentini mi hanno dato la possibilità di essere me stessa. Mentre i relatori parlavano, il cuore scalpitava nel petto. Oggi ho pianto, perché le domande mi hanno fatto riflettere rispetto alla realtà che vivo. Mi hanno scossa. Con umiltà ho capito che sono veramente un essere piccolo rispetto all’infinito che desidero”.

A questo punto, generalmente, qualcosa va storto: ti guardi intorno e son tutti lì a pensare ad altro o a far finta di niente. Stavolta, invece, alzi gli occhi e ti imbatti in altri occhi lucidi: “ecco tutti i loro fanciullini alla finestra dell’anima, illuminati da un sorriso o aspersi d’una lagrima che brillano negli occhi de’ loro ospiti inconsapevoli; eccoli i fanciullini che si riconoscono” (Giovanni Pascoli). Non c’è più bisogno di maschere. “Sentire la voce incrinata di ogni persona ti riempie di gioia. Sorrisi, risate, piene di sincerità: che belli che siamo”: Paolo non riesce a trattenersi, e Manuela si alza, viene vicino alla cattedra e rimane lì a guardarsi lo spettacolo di quegli estranei che finalmente si scoprono insieme.

Sì, sono belli. Giovanni ha fatto decine di chilometri per Firenze con le bolle ai piedi, Alessia aveva 39 di febbre ma – e quando mai si è visto? – non si è voluta perdere una lezione, la faringite aveva tolto la voce a Giorgia, che però la sera si sforzava comunque di cantare le canzoni che ti smuovono il cuore. Diventa stranamente bello svegliarsi alle 6 di mattina, diventa stranamente bello fare scuola: “questa è la vita che vorrei”, scrive Giulia.

Se qualcuno ha mai visto progetti o strategie didattiche capaci di realizzare una novità così profonda, si faccia avanti. Come possiamo raccontarlo? È infinitamente di più che partecipare a una bella iniziativa. Di iniziative ce ne sono fin troppe, e – diciamocelo tranquillamente – il guaio è che a una scuola troppo spesso interessa soprattutto che si facciano cose. E far sapere che si fanno cose. L’anima non importa. Invece è questa la scoperta fiorentina: io esisto! Anche a voler scrostare i colori emotivi dell’adolescenza e l’adrenalina del viaggio: “tutto avrei pensato eccetto che durante questa breve permanenza la mia vita si sarebbe capovolta”, confessa Daria.

Glielo leggi negli occhi: e cosa vuol dire insegnare se non seguire quello che passa negli occhi degli studenti? Non si vuol certo fare l’apologia delle emozioni o venir meno al lavoro quotidiano: tutt’altro! È la letteratura che commuove, a patto che sia letteratura (cioè leggere libri, non fare autori! confrontare le parole con l’esperienza, non banalizzare un testo! “pensare colla stessa profondità dell’autore”, non ripetere paragrafi o esprimere opinioni!). Hai quindici anni e hai letto integralmente i Canti e le Operette morali: sai già che le fandonie sul pessimismo e sulla natura matrigna sono l’aria in bocca di chi insegna Leopardi ma non l’ha mai letto, e seppellisce l’anima dei ragazzi, insieme all’anima di Leopardi. Che ne sanno i cinici, che non vedono testi e non vedono lacrime? Sanno solo lamentarsi degli studenti e blaterare sui programmi. Questo invece è uno dei miracoli della scuola: che studenti e insegnanti possano mettersi insieme, e conoscere insieme, e cambiare insieme. E gridare: la scuola dovrebbe essere così. Anzi, la scuola, da adesso in poi, è già così.

Nota bene: i partecipanti ai Colloqui fiorentini non hanno il mito dei Colloqui fiorentini. A noi piace la vita, mica aspettiamo in apnea la prossima edizione (sull’immenso Cesare Pavese)! Leopardi, del resto, non si innamorò tanto di Aspasia quanto dell’”amorosa idea” che Aspasia aveva suscitato in lui: una promessa di paradisi sconosciuti. Firenze non è il paradiso, è la promessa, come chiede Dea: “Io non vorrei che tutto quello che ho visto e sentito nel mio cuore duri per quel poco tempo finito”. Nessun mito, allora. Piuttosto la domanda che stavolta la Natura renda poi quel che ha promesso allor, che questa scuola diversa – questa vita diversa – non finisca.

“Il desiderio di infinito è quello che stavo aspettando, ciò che mi sveglia al mattino e che mi culla la notte. Stavo per andarmene, stavo facendo spazio al pilota automatico, all’anestesia, perché ‘ho sedici anni e già da più di dieci ho smesso di credere’. Fin quando quello che ho immaginato per mesi è diventato realtà: I colloqui fiorentini. Quando ti accorgi di non essere sola, di avere un amico come Leopardi, questo desiderio ti travolge come un uragano e ti aiuta a fare della tua vita un’incredibile storia: ‘Chi dalla grave, immemore / Quiete or mi ridesta? / Che virtù nova è questa, / Questa che sento in me?’. Versi del Risorgimento incisi dentro di me”.

Giorgia non ha ancora la voce ma le parole giuste sì, per esprimere la responsabilità che ci spetta nella scuola italiana: quella di una promessa già mantenuta, di “un’incredibile storia” che ricomincia ogni volta che entriamo in classe. Non la vaga speranza che un desiderio diventi storia, ma una storia che risveglia il desiderio: “Nell’alte vie dell’universo intero, / Che chiedo io mai, che spero / Altro che gli occhi tuoi veder più vago? / Altro più dolce aver che il tuo pensiero?”.





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