Si è aperta ufficialmente mercoledì l’81ma mostra del cinema di Venezia con il film fuori concorso Beetlejuice Bettlejuice, un ritorno alle origini di Tim Burton che, ci racconta, sentiva di essersi un po’ allontanato dal cinema che ama di più. Sarà forse per colpa del suo ultimo lungometraggio flop, Dumbo, realizzato nel lontano 2019 con la Disney? In ogni caso, i fan dell’istrionico regista statunitense lo aspettavano da tempo e, sul red carpet veneziano, sono sembrati davvero carichi, inondandolo con gridolini isterici e omaggiandolo con coloriti travestimenti ispirati ai suoi film culto.
Si presenta con lui anche il cast del film al completo, dove spicca l’inarrestabile Michael Keaton, il mostro sacro Willem Dafoe, ormai di casa dopo la nomina a direttore artistico della Biennale di Venezia per il 2025 e il 2026, la rediviva e compassata Winona Ryder, oltre a Monica Bellucci, nascosta dietro due occhiali chilometrici e Jenna Ortega, idolo teenager dopo il successo di Mercoledì, la nuova fortunata serie ispirata alla famiglia Addams.
Nella prima giornata si è vista in Laguna anche Sigourney Weaver, Leone d’oro alla Carriera, Isabelle Huppert, presidente della Giuria e Cate Blanchett, protagonista della serie Disclaimer, di Alfonso Cuarón. Ma l’elenco delle dive sembra appena iniziato. Appena il tempo di riposarsi, dopo una lunga giornata di apertura, ed ecco che nelle sale del Lido si proietta Maria. La divina Callas è interpretata da Angelina Jolie, che da tempo non ci regalava un’interpretazione di spessore, dopo la deriva fantasy commerciale dell’ultimo decennio (Changeling, di Clint Eastwood è del 2008…).
A firmare la regia è l’acclamato talento cileno Pablo Larrain, l’anno scorso a Venezia con El Conde, autore di alcune fortunate biografie, come Neruda, Jackie e Spencer. Con Maria ci racconta gli ultimi anni di vita di Maria Callas, per molti la più grande cantante lirica di tutti i tempi. La Callas era depressa, visibilmente dimagrita e lacerata da incubi quotidiani. La sua voce compromessa e incapace di raggiungere le vette che l’hanno resa unica nella storia della musica lirica. La sua popolarità appannata dopo i fasti degli anni Cinquanta e il legame ostentato con il miliardario greco Onassis, che poi le preferì Jaqueline Kennedy. La Callas si era ritirata dalle scene, sognando di tornarci, costringendo la sua preziosa voce tra le pareti della sua sfarzosa casa parigina, abitata dal fidato maggiordomo e dalla sua governante.
Angelina, guidata da Lorrain, riesce ad esprimere con grande empatia tutto il dolore della diva, a partire da una magrezza quasi innaturale. I suoi occhi si sgranano di desiderio, ogni qualvolta respira le glorie del passato o la venerazione della gente. Altre volte si inondano di mare, tormentata da un passato troppo diverso e troppo lontano. Altre ancora li nasconde dietro a enormi occhiali, che velano la sua infinita tristezza, tenuta a bada con manciate di farmaci.
La Jolie è diva perfetta, nel film come nella vita, colorata da emozioni bipolari che cambiano il cielo sopra di lei. Il crepuscolo della Callas, fino alla sua morte nel 1977, è un racconto privato, intimo e quasi sommesso, risvegliato da memorie in bianco e nero e dalla voce originale e sconvolgente, che suona forte e intatta nel tempo, e che impreziosisce il film.
C’è molta Italia nella vita della Callas, che per un periodo della vita è stata naturalizzata nel nostro paese, e c’è molta Italia anche nel cast del film, con Pierfrancesco Favino, misurato maggiordomo paterno, Alba Rohrwacher, la cuoca di famiglia, e Valeria Golino, sorella maggiore della cantante.
In concorso per il Leone, nella seconda giornata di proiezioni, si fa notare anche El Jockey, la storia strampalata di un fantino argentino. Diretto da Luis Ortega, il film ci accompagna nella vita di Remo Manfredini, quando in un tempo immaginario era un grande talento delle corse a cavallo. Scoperto e valorizzato dal boss Sirena, Remo è piombato in una crisi disperata. Lo vediamo strafatto, prima di ogni corsa, “bombarsi” di droghe da cavallo che lo allontanano sempre più dalla speranza di tornare a vincere. Il racconto segue le vie del grottesco, con un esilarante humor latino e nero pesto, che si alimenta attraverso una galleria di personaggi improbabili tutto attorno.
Quella di Remo è una crisi personale esistenziale che chiede il conto e che finisce per inasprire i rapporti con il team malavitoso, che sul fantino non riesce più a fare i soldi. Minacciato di morte, nella gara clou del suo tramonto di carriera, si schianta contro una staccionata e viene ricoverato in ospedale. Dalle cupe profondità di chi sta perdendo tutto, dato per morto in ospedale, Remo si sveglia con un chilo di bende in testa, che lo rendono tutt’altro che invisibile, e fugge dal Boss alla confusa ricerca di sé stesso. Troverà tante diverse forme di sé e dei suoi goffi fantasmi.
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