LETTURE/ “E adesso parlo io”: Alessandro Pivetta, lo stato vegetativo non esiste

- Laura D'Incalci

In "E adesso parlo io" Fabio Cavallari racconta l'esperienza dell'incontro straordinario con Alessandro Pivetta, in apparente silenzio dal 2005

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Esistono vite imprigionate, relegate in una distanza abissale da tutto e da tutti, in balia di un comune sentire e argomentare che non fa altro che avallare un esilio senza ritorno, definitivo e disperante.

È questa la condizione in cui versano i soggetti definiti “in stato vegetativo”, senza voce, senza gestualità, senza mimica nel volto. Pochi si chiedono quale mondo si cela o potrebbe forse celarsi dietro la fissità inespressiva che immobilizza la loro vita. E d’altronde, non mancano segnali che indurrebbero a porre domande, a scalfire quell’omologata e superficiale certezza di annientamento di qualsiasi brandello di vitalità, di sensibilità, di palpito inesprimibile, impercettibile e drammatico come un grido strozzato, irrimediabilmente muto.

Fabio Cavallari si è imbattuto in questo grido incontrando un giovane in “stato vegetativo” in seguito a un incidente ed è stato provocato dalla sua vita “anomala”, ma reale, sostenuta e compresa in una trama di relazioni impensabilmente vivaci e creative. E ha deciso di dipanare l’esperienza di quell’incontro straordinario dando voce al protagonista nel suo libro E adesso parlo io (Lindau, 2022).

“Mi chiamo Ale. All’anagrafe Alessandro Pivetta. Abito a Pordenone. Ho trentaquattro anni. Non parlo dalla mattina del 15 agosto 2005. Lo so, è un silenzio prolungato, ma non si tratta di mutismo selettivo e non ho neppure un problema alle corde vocali. È una grana un pochino più complessa. Diciamo di difficile soluzione. È vero, non cammino neppure. Non muovo le braccia. Non rido? Beh, questo lo lascio dire a voi. Io ho riso molto in questi anni. Non ve ne siete accorti? Sinceramente, è un problema vostro. Ma vi assicuro, cazzo, che quando vedo il vostro imbarazzo, quando capisco che siete in difficoltà, lì, davanti a me, io rido”.

L’incipit del Monologo liberamente tratto da un ragazzo in “stato vegetativo”, come segnala il sottotitolo del libro, apre immediatamente il sipario su una vicenda che assume forma reale attraverso un’immedesimazione vissuta: nell’attenta condivisione di giornate e occasioni di compagnia con Alessandro e la sua famiglia, l’autore riesce a captare segnali impercettibili, messaggi impalpabili che si traducono in intuizioni, stati d’animo, pensieri e parole che costruiscono una trama credibile. Frequentando Ale e i suoi familiari, Cavallari sorprende una quotidianità sconvolgente e avventurosa, intercetta pensieri, emozioni, parole inespresse alle quali decide di dare voce. E le parole di Alessandro Pivetta sono decise e intransigenti, a volte quasi sfrontate nella loro carica provocatoria: “Vi metto in discussione, in questa strana condizione che mi separa da voi, ma mi lega indissolubilmente a voi. Metto in dubbio le vostre certezze, scavo buchi nelle vostre fragilità, vi pongo spalle al muro da sdraiato”.

Il suo racconto non suggerisce nessun pietismo, ma trasuda della consapevolezza che il suo “esistere” è un dato di fatto, un’evidenza che reclama interrogativi, dubbi, certezze… L’esistenza umana non può essere sminuita, catalogata come “vegetale”, annientata perché non corrisponde ai canoni di una mentalità superficiale e prepotente. Fabio Cavallari ha assunto la responsabilità di tradurre un’esperienza respirata a tu per tu con il giovane che gli ha aperto gli occhi e il cuore su una realtà normalmente giudicata “invivibile” e che affiora invece in tutta la sua consistenza, in tutta la sua volontà di ricerca, di umanità piena, accompagnata da una dedizione ricca di inventiva e di stupore. E, utilizzando la penna con talento, provoca uno tsunami nell’assopimento di una coscienza collettiva incline ad uniformarsi ai parametri che stabiliscono i livelli entro i quali la vita può essere valutata degna o meno di essere vissuta.

I dibattiti sul fine-vita, sul diritto a una morte liberatoria per esseri umani costretti a un’insensata sopravvivenza, sembrano infrangersi di fronte alla verve ironica di Ale che prende la parola esplicitando un giudizio chiaro su quel surplus di senso e di valore del vivere che in molti casi sfugge alla stessa scienza medica, e soprattutto sfugge agli sguardi impauriti e cinici di chi non regge l’urto del reale nel suo inafferrabile mistero, nella sua enigmatica e imprevedibile ricchezza.

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