UNIVERSITA’/ Le palle da biliardo e il principio di Phelps

- Giovanni Salmeri

E' ragionevole che all'università non siano iscritti più studenti del possibile. Tuttavia dietro la discussione sul numero chiuso si nascondono falsi presupposti. GIOVANNI SALMERI

universita_test_ammissione_1_lapresse_2017 Test per ingresso all'università (Lapresse)

Chiunque sia incappato nella disavventura di un overbooking aereo sa bene quanto sia spiacevole ed esasperante, dopo aver fatto per tempo tutti i passi, aver pagato, aver preparato le valigie ed essere arrivato all’aeroporto, trovarsi lasciati a terra in attesa di un successivo volo misericordioso che porti finalmente a destinazione. 

Con ciò la discussione sul numero chiuso all’università potrebbe una buona volta finire: è elementare ragionevolezza che non siano iscritti più studenti del possibile, esattamente come dovrebbe accadere in un aereo, in un ristorante o in un cinema. Il caso è anzi ancora più delicato, perché mentre in tutti i casi or ora citati perlomeno la situazione è chiara (non c’è un posto qui e ora? cercalo altrove o torna più tardi!), nel caso dell’università non lo è: si paga (se direttamente con le tasse o nella fiscalità generale poco cambia) per un servizio che viene offerto sì, ma poco, male, a singhiozzo, e che inoltre così si deteriora per tutti.

La discussione potrebbe finire, se la posta in gioco fosse appunto solo questa, e se essa non fosse invece collegata ad un groviglio di problemi irrisolti e che meritano ognuno una risposta completamente diversa. C’è il problema dell’orientamento (vuoi iscriverti? quali sono veramente i tuoi desideri e capacità?). C’è il problema della connessione tra scuola e università (perché la seconda si trova spesso costretta a verificare il possesso di conoscenze che dovrebbero essere assicurate alla fine della scuola primaria?). C’è il problema dei test di ammissione all’università (il loro esito è statisticamente distinguibile da un’estrazione a sorte? si è valutato il loro effetto di disturbo nell’ultimo anno di scuola?). C’è il problema degli abbandoni (chi è responsabile del fatto che tanti giovani motivati e capaci lasciano ciononostante a metà gli studi?). C’è il problema del finanziamento e del dimensionamento dell’università (i posti per gli studenti sono esauriti? benissimo, vuol dire che c’è richiesta, aumentiamoli sùbito moltiplicando aule e docenti: l’Italia non ha certo troppi laureati). C’è il problema dello spirito e del senso dell’università (siamo sicuri che i paragoni prima fatti con attività commerciali colgano l’essenziale? che ne è dell’università come comunità di studenti e docenti?).

Che un ovvio no all’overbooking sia interpretato come una risposta a tutte queste e consimili domande è quindi disonesto, soprattutto quando queste risposte sottintese in fin dei conti si riassumono in una pacifica accettazione dello status quo.

Contentiamoci allora di dire qualcosa su una delle questioni coinvolte che spesso è affiorata nelle discussioni dei giorni scorsi. Che venga finalmente messo il numero chiuso ai corsi di laurea umanistici è cosa buona, è stato ripetuto, anche perché in questo modo la facciamo finita con quell’eccesso di letterati, filosofi e storici che poi faranno i disoccupati. Circa un mese fa, quando la vicenda dell’Università di Milano si stava profilando, è stata Luisa Ribolzi (in maniera peraltro molto più equilibrata di altri) a ripetere in queste pagine il monito: coloro che scelgono lauree umanistiche sono troppi, perché in quel campo si “prevedono” meno assunzioni negli anni futuri. Osservazione ragionevole, certo: ma che dà per ovvia una sequenza di presupposti che vanno discussi.

È alquanto dubbio anzitutto che l’università deve tout court formare al lavoro: la Costituzione italiana (oltre che la storia) non dice affatto questo, per esempio. La cultura è un valore in sé, che serve per formare persone e cittadini, non anzitutto forza-lavoro. La carenza in Italia di percorsi superiori direttamente professionalizzanti (che Luisa Ribolzi giustamente evidenzia) ha anche l’effetto collaterale di proiettare vischiosamente su tutti i percorsi di studio improbabili finalità immediatamente lavorative: questo sì che è inaccettabile.

È scorretto anche considerare il mercato del lavoro una variabile indipendente rispetto all’università: il primo evolve rispetto ai bisogni e ai desideri delle persone e delle società, con punti di mutamento e rottura a volte anche sorprendenti. Qualsiasi “previsione” di fatto significa un’abdicazione al ruolo di fecondazione e rinnovamento che proprio l’università deve svolgere. Nel campo dei beni di consumo si sa benissimo che “i bisogni si creano”: certo, e ciò vale anche nel campo del bisogno spirituale e umano. Tanti giovani che vogliono studiare letteratura o filosofia sono anche tanti giovani che (se non vengono costantemente scoraggiati) sono pronti ad alimentare il mercato della cultura, cioè a pensare che vale la pena spendere per leggere, imparare, conoscere ciò che è bello. La cultura non si mangia, certo: ma praticamente niente di ciò che alimenta oggi l’economia “si mangia”. Il problema è semmai che anche il decisore politico investa nei settori più attraenti. Ciò significa pure che le previsioni in questo campo sono fragilissime, perché in gioco non ci sono palle di biliardo che rimbalzano, ma esseri umani che desiderano e scelgono liberamente (e se proprio qualcuno è ancora convinto della bontà delle previsioni in questo campo, legga per esempio che cosa si diceva autorevolmente nel 1977 riguardo all’assurdità di avere un computer in casa, e poi ne riparliamo).

E infine non è affatto certo che davvero ciò che serve siano più laureati in materie scientifiche. Tempo fa riflettendo sulla questione scriveva Edmund S. Phelps: “Gli imprenditori spesso sostengono che il divario crescente nella formazione, cioè la disparità tra ciò che i giovani imparano e le competenze che il mercato del lavoro chiede, è una causa principale dell’alto tasso di disoccupazione e della lentezza dello sviluppo in molti paesi. Da parte loro, i governi sembrano convinti che il modo migliore di colmare questo divario è aumentare il numero degli studenti che frequentano corsi di laurea “Stem” (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica). Hanno ragione? La risposta breve è no”. 

In breve, l’argomento di Phelps era che l’osservazione empirica smentisce questa ipotesi e viceversa mostra che lo sviluppo economico è stato sempre dovuto a spirito d’iniziativa, creatività, inventiva, speranza: valori insomma tipicamente umani. Aggiungo: certamente questi si trovano in tutte le discipline (la stessa distinzione tra studi “umanistici” e “scientifici” mi pare sempre più insensata), ma altrettanto certamente vengono ignorati e mortificati quando si considerano “eccessivi” gli studi letterari, filosofici, storici, artistici, quelli che in un certo senso li custodiscono più da vicino. 

Abbiamo oggi bisogno di qualcosa in più? Certo: più cultura, più umanità, più spirito critico, più attenzione ai desideri, più possibilità di entusiasmarsi.





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