Non per nostro merito, ma per l’umiltà di Dio

- Giovanna Parravicini

Durante la Sua morte Cristo discese agli inferi per ridonare la vita a tutto coloro che erano nel sepolcro. La morte è vinta per tutti, non solo per Lui

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Anastasi, mosaico di San Marco a Venezia (Foto dal web)

Per la Chiesa l’intera settimana che segue la Pasqua continua ininterrottamente il “bel giorno” della Resurrezione. I cristiani d’Oriente, in particolare, continuano a salutarsi scambiandosi l’esultante saluto pasquale, che sostituisce in questi giorni ogni altra forma di approccio: “Cristo è risorto! In verità è risorto!”. Il motivo di tale esultanza è da ricercarsi – se la Pasqua non è ridotta a una pia tradizione – nella portata cosmica dell’evento della Resurrezione, che ha scardinato la potenza del male e aperto le porte della salvezza all’umanità intera.

Nell’icona tradizionale della Pasqua, che prende il titolo di “Discesa di Cristo agli inferi” (per l’esattezza, dovremmo dire “Ascesa di Cristo dagli inferi”), Gesù è raffigurato mentre trae dagli inferi Adamo, Eva e gli altri personaggi della storia biblica; sotto i suoi piedi si apre il nero abisso dell’inferno, sullo sfondo del quale appaiono chiavistelli, chiavi e i battenti delle porte che un tempo sbarravano ai morti la via alla resurrezione.

In contrasto con il silenzio che incombe sulla terra il Venerdì sera e si prolunga per tutto il Sabato santo, negli inferi si svolge la battaglia decisiva, cui segue l’esodo di quanti vi erano fino a quel momento imprigionati, il passaggio del “nuovo Israele”, messo in salvo non dal sangue degli agnelli sacrificali spalmato sugli stipiti delle porte, ma dal sangue dell’Agnello che si fa Lui stesso “porta”, ingresso nel Regno promesso.

Questo cammino di salvezza vale anche per gli “inferni” dei nostri giorni? Nell’omelia della notte di Pasqua, papa Francesco ha ricordato che “anche dalle macerie del nostro cuore Dio può costruire un’opera d’arte, anche dai frammenti rovinosi della nostra umanità Dio prepara una storia nuova”. In che modo? Richiamandoci a tornare all’origine, a riprendere la memoria del primo incontro, a ricominciare: così “impariamo lo stupore dell’amore infinito del Signore, che traccia sentieri nuovi dentro le strade delle nostre sconfitte”. Senza lasciarci frenare da moralismi e scetticismi, che vorrebbero incatenarci alla nostra impotenza, ma forti di una misericordia che, proprio perché non ha la nostra misura, ci mette le ali ai piedi.

“Con la morte ha calpestato la morte, donando la vita a quanti erano nel sepolcro”. Nella liturgia bizantina della notte di Pasqua non si fa cenno a buoni e cattivi, a meritevoli o no della salvezza: non valgono più i “distinguo” così amati dai tanti farisei del giorno d’oggi. Anzi, viene letto – invece dell’omelia – il sermone di uno dei Padri della Chiesa, Giovanni Crisostomo, che invita tutti, senza eccezione, al banchetto, perché Cristo ha colmato con sovrabbondanza ogni male, ogni difetto umano: “Entrate dunque tutti nella gioia del nostro Signore: primi e secondi, godete la mercede. Voi che avete digiunato e voi che non avete digiunato, oggi siate lieti. La mensa è ricolma, deliziatevene tutti. Il vitello è abbondante, nessuno se ne vada con la fame. Profittate tutti del banchetto della fede, godete tutti la ricchezza della bontà”. Sa bene, Giovanni Crisostomo, che niente come la consapevolezza della propria miseria, del bisogno di essere perdonati può essere l’inizio di un’umanità nuova, di un mondo a misura d’uomo; l’inizio di una giustizia – l’unica vera ed esauriente – che oltrepassa i limiti umani dilatandosi ad accogliere la “dismisura” divina.

Le ferite doloranti sul corpo di Cristo, gli strappi provocati dagli uomini alla tunica di Cristo – non solo le divisioni fra le grandi religioni o tra le confessioni cristiane, ma anche quelle generate dall’ideologia all’interno del mondo cattolico – non giungono a inficiare la salvezza operata da Cristo nella sua Discesa agli inferi per trarne in salvo l’umanità. La resurrezione suggella la vittoria di Cristo sulla morte, segna il completo svuotamento degli inferi – come sottolinea ripetutamente la liturgia orientale – in cui dopo la discesa di Cristo non rimase nessuno, tranne i demoni.

Il giorno di Pasqua sono stata a messa in una chiesa della bergamasca che molti ricorderanno sicuramente di aver visto in televisione, durante il lockdown della primavera scorsa, piena di bare in attesa della cremazione. Nell’omelia il sacerdote ha ricordato che, la notte della scorsa Pasqua, era sceso in chiesa a pregare, e aveva acceso un lumino su ciascuna di quelle bare. Lumini piccoli, che però avevano inaspettatamente illuminato intensamente la chiesa, quasi a rivivere la discesa della Luce vera negli inferi, e la liberazione di quanti erano nel sepolcro.

Ciò che accadde in quella misteriosa notte di duemila anni fa continua a riaccadere anche oggi, illuminando dall’interno gli inferi del nostro quotidiano. A ciascuno di noi, in questa settimana pasquale – e da quando Cristo è risorto ogni giorno della vita – vengono rivolte le parole che un altro Padre della Chiesa, Epifanio di Cipro, mette sulle labbra di Gesù mentre si avvicina ad Adamo, negli inferi, lo afferra vigorosamente e lo scuote, ridonandogli vita per la seconda volta: “Svegliati, tu che dormi! Non ti ho creato perché tu rimanessi prigioniero nell’inferno. Risorgi dai morti. Risorgi, opera delle mie mani! Risorgi mia effigie, fatta a mia immagine. Risorgi, usciamo di qui!”. Non per nostro merito, ma per l’infinita misericordia di Dio, per l’”umiltà di Dio”, come direbbe Guardini, che contempla con stima e amore la propria creatura, vedendo in essa la grandezza a cui era destinata, e che Egli è venuto a restaurare.

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