Il 30 novembre 1943 Etty Hillesum moriva, insieme a tanti innocenti, nel lager di Auschwitz. Il diario e le numerose lettere che ci ha lasciato, testimoniano uno sguardo sulla vita e sugli uomini “trasfigurato dalla fede”, che la fa sentire libera in un mondo oppressivo e omicida, uno sguardo che – ottantun anni dopo – continua a interrogarci e a commuoverci.
È la mattina del 20 giugno 1942 e in Europa si sta consumando la più terribile tragedia della storia umana. La popolazione ebraica olandese è umiliata dagli invasori nazisti con ogni sorta di atrocità. Etty Hillesum (1914-1943), ebrea di quasi trent’anni, attraversa in bicicletta la Stadionkade di Amsterdam. Mentre pedala, osserva con occhi attenti quanto accade attorno a lei. Poi, a notte fonda, annota nel suo diario: “Dappertutto c’erano cartelli che ci vietavano le strade per la campagna. Ma sopra quell’unico pezzo di strada che ci rimane c’è pur sempre il cielo, tutto quanto”. E aggiunge: “Trovo bella la vita, e mi sento libera” (Diario, 638). Un anno più tardi, dal campo di transito di Westerbork, Etty ribadirà: “Non ho la sensazione di essere privata della mia libertà e non c’è nessuno che mi possa fare veramente del male” (Lettere, 91).
Cos’è la libertà? Come può una donna sentirsi libera mentre assiste consapevole all’annientamento del popolo cui appartiene? Come può non lasciarsi determinare dal male compiuto su tante persone a lei care, nemmeno vedendo migliaia di uomini, donne e bambini partire per i campi di sterminio e sapendo che presto toccherà anche a lei e alla sua famiglia?
La visione che Etty ha della vita e della libertà fiorisce dalla sua profonda relazione con Dio. La giovane olandese ha conosciuto Dio attraverso la letteratura – soprattutto Dostoevskij e Rilke, ai quali si abbevera ogni giorno – e la lettura frequente della Bibbia. Ma anche attraverso il Nuovo Testamento, sant’Agostino, Eckhart e altri autori cristiani, ai quali è introdotta da Julius Spier, lo psicochirologo al quale si affida per risolvere i suoi conflitti profondi. La sua religiosità non è inquadrabile in una tradizione religiosa precisa: il diario non parla mai del Dio d’Israele, né del Dio di Gesù Cristo. Piuttosto Dio, per la Hillesum, è la parte migliore, più profonda e ricca del suo essere: “Dentro di me c’è una sorgente molto profonda. E in quella sorgente c’è Dio” (D, 153). Non bisogna pensare, però, a un’entità vaga e astratta: Etty è grata di essere “creata così come sono” e percepisce la presenza di Dio nel profondo di sé e di ogni uomo come “frammento di eternità”. Spesso si rivolge direttamente a Dio all’interno di una relazione molto personale: “Talvolta posso essere così colma di vastità, quella vastità che non è poi nient’altro che il mio essere ricolma di Te” (D, 271).
Senza smettere di guardare in faccia la realtà resa sempre più tragica dalle restrizioni, dalle violenze e dalle deportazioni, Etty comprende che il vero dramma del mondo è la perdita del rapporto degli uomini con Dio e il conseguente disfacimento dell’umano, e che niente è più urgente che “rintracciare il nudo, piccolo essere umano … diventato irriconoscibile in mezzo alle rovine delle sue azioni insensate” (D, 565) e disseppellire Dio “dai cuori devastati di altri uomini” (D, 713).
La consapevolezza che Dio, nonostante tutto, continua a vivere nel profondo degli uomini, la porta ad affermare con semplicità disarmante: “Non possono farci niente, non possono farci veramente niente. Possono renderci la vita un po’ spiacevole, possono [solo] privarci di qualche bene materiale o di un po’ di libertà di movimento”. E aggiunge: “Trovo bella la vita, e mi sento libera. I cieli si stendono dentro di me come sopra di me. Credo in Dio e negli uomini e oso dirlo senza falso pudore. La vita è difficile ma ciò non è grave” (D, 638).
Nei suoi pensieri e nella sua esistenza quotidiana non c’è ombra di stoicismo. Etty non è al di sopra delle passioni e non vive distaccata dalla realtà. Anzi, la sua sensibilità e la sua intelligenza la portano a sentire con particolare acutezza il dolore delle contingenze storiche. Emerge in lei una forza invincibile: “Le ultime notizie dicono che tutti gli ebrei saranno deportati dall’Olanda in Polonia, passando per il Drenthe. E secondo la radio inglese, dall’aprile scorso sono morti 700.000 ebrei, in Germania e nei territori occupati. Se rimarremo vivi, queste saranno altrettante ferite che dovremo portarci dentro per sempre. Eppure non riesco a trovare insensata la vita”. E subito dopo: “Sono già morta mille volte in mille campi di concentramento. So tutto quanto e non mi preoccupo più per le notizie future: in un modo o nell’altro, so già tutto. Eppure trovo questa vita bella e ricca di significato. Ogni minuto” (D, 667).
Etty riconosce il fondamento per vivere nel Dio “che è dentro di te e che non ti abbandonerà mai” (D, 674). L’uomo è stato creato a “immagine e somiglianza di Dio” e, per quanto possa essere sotterrata sotto coltri di violenza e di dolore, questa somiglianza non può essere cancellata. Un giorno Etty scrive: “Ti cerco in tutti gli uomini e spesso trovo in loro qualcosa di Te. E cerco di disseppellirTi dal loro cuore, mio Dio” (D, 750).
Il sentimento religioso di Etty è sincero e la dispone a intuire e a cercare Dio, a pregarlo a mani giunte, in ginocchio, certa che affidarsi a Lui significa essere liberi in ogni circostanza: “Esistono persone che all’ultimo momento si preoccupano di mettere in salvo aspirapolveri, forchette e cucchiai d’argento – invece di salvare Te, mio Dio. E altre persone, che sono ormai ridotte a semplici ricettacoli di innumerevoli paure e amarezze, vogliono a tutti i costi salvare il proprio corpo. Dicono: non prenderanno proprio me. Dimenticano che non si può essere nelle grinfie di nessuno se si è nelle Tue braccia” (D, 714). Ecco, allora, il grande passo: “Una volta che si comincia a camminare con Dio, si continua semplicemente a camminare e la vita diventa un’unica, lunga passeggiata” (D, 717).
Con i genitori e il fratello Mischa, Etty viene deportata nel lager di Auschwitz il 7 settembre 1943. Vi muore due mesi più tardi.
Qualche giorno prima della partenza dal campo di Westerbork, scrive all’amica Maria Tuinzing: “Come eravamo giovani solo un anno fa su questa brughiera, Maria, ora siamo un tantino più vecchi. Noi stessi non ce ne rendiamo veramente conto: siamo stati marchiati dal dolore, per sempre. Eppure la vita è meravigliosamente buona nella sua inesplicabile profondità, Maria – devo ritornare sempre su questo punto. Se solo facciamo in modo che, malgrado tutto, Dio sia al sicuro nelle nostre mani” (L, 153).
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