“Con ‘Anima Latina’ ho messo la mia voce in mezzo alla mia musica e ho inteso stimolare gli altri a capire le parole, ad afferrarne il senso o la sua sonorità; ho inteso stimolare chi mi ascolta a fare attenzione a ciò che sta succedendo, a ciò che accade nel momento in cui si ascolta il brano. Non tanto perché questo sia piacevole, ma perché significa ascoltare qualcosa e ascoltare con attenzione, magari rimettendo il disco d’accapo perché non si è capito, magari irritando chi non è riuscito ad individuare al primo ascolto una parola. È un’operazione stimolante e coinvolgente, il modo che ho scelto per comunicare con gli altri, per essere presente in mezzo agli altri”.
È quasi una tesi di laurea su “comunicazione e musica” questa dichiarazione di Lucio Battisti a Renato Marengo, giornalista musicale della rivista “Ciao 2001” rilasciata tra le mura del “Mulino” lo studio di registrazione più “in” situato nelle campagne brianzole.
È il 1974: un anno prima il duo Battisti/Mogol aveva pubblicato un ennesimo disco campione di vendite, l’album “Il nostro caro angelo” e già si avvertivano i primi segnali, tra musica e parole, che qualcosa in fase compositiva stava cambiando. Mogol più “libertario” che mai e Battisti non più adagiato alla forma canzone più nazional/popolare (nell’accezione positiva del termine, data la qualità del prodotto), ma alla ricerca di ritmi e sonorità non più radiofoniche: pochi accenni, sì, ma con una strada segnata.
Lucio, infatti, a cavallo dei decenni ‘60/’70 era stato un ponte tra la canzone italiana in auge nelle Canzonissime e i vari Festival sanremesi della RAI per approdare alla scoperta del movimento cantautorale che si stava imponendo tra le giovani generazioni.
Il suo modo di comporre, pur con picchi di assoluta qualità, però era ancora “accomodante”, un repertorio d’alta classifica di vendite e gradimento.
Il tessuto sociale formatasi nel boom del secondo dopoguerra stava irrimediabilmente cambiando (lasciamo ai sociologi giudicare con quali contraddizioni) e quindi anche la proposta d’ascolto doveva provocare, non lasciare tranquillo l’ascoltatore.
Il genio musicale di Battisti non è stato quello di inventare chissà che cosa, il cantautore di Poggio Bustone dall’inizio della sua carriera assorbiva come una spugna il mondo di esperienze musicali che gli girava intorno, traducendolo con la sua personalissima ispirazione, magari anticipandone l’evoluzione nei meccanismi del mercato discografico italiano.
Non rimaneva inchiodato nella sala di registrazione, ma dal carattere curioso amava viaggiare, spesso in compagnia di Mogol, respirando culture diverse.
“Anima latina” trae spunto dal viaggio della coppia di autori nell’America del centro sud: 20 giorni nel 1973 tra Rio de Janeiro, San Paolo e Buenos Aires; in quegli anni la situazione politico sociale di quella parte del continente americano era particolarmente “magmatica”.
In Argentina era appena tornato al potere il populista Peròn a cui seguirà il governo dittatoriale dell’esercito militare massacratore di popolo; in Cile, un anno prima, stessa drammatica vicenda governativa con l’avvento dell’esercito al potere dopo l’assassinio (c’è chi dice suicidio) del Presidente socialista Salvator Allende.
Abituato alle tranquille scorribande ecologiche a cavallo insieme a Mogol, Battisti torna piuttosto turbato e mette in discussione il suo essere una star musicale in una società comunque pacifica, e sempre a Renato Marengo afferma: “Perché l’America latina? Perché lì tra la gente semplice, tra quei suoni genuini e al tempo stesso pieni di felicità ma anche di denuncia, di realtà, ho ritrovato il mio spirito latino. Con l’anglicismo e l’americanismo che ci hanno coinvolto in questi ultimi anni, andavamo perdendo, proprio noi mediterranei, più di tutti, lo spirito creativo, la vitalità che ci caratterizzano da sempre e che non sono morti, ma semplicemente addormentati dalla sudditanza all’Amerika (nell’articolo scritto proprio con la ‘k’ n.d.r.) dei frigoriferi e consumi”.
Un bell’affondo “politico” indubbiamente, inaspettato da un personaggio sospettato nientemeno di finanziare formazioni neofasciste (una vera leggenda metropolitana più volte smentita); tanto inaspettato da suscitare una certa curiosità negli ambienti “alternativi” di “Re Nudo”, che in quegli anni, tra pubblicazioni e organizzazione di concerti al Parco Lambro milanese, erano megafono della cultura dell’ala del comunismo giovanile estremo da cui facevano i primi passi: PFM, Perigeo, Area; Alan Sorrenti, Battiato, Stormy Six, Finardi, Camerini, addirittura uno sconosciuto Branduardi: “L’America Latina mi ha scosso da certi torpori, ma già da qualche anno avevo dentro un senso di rivolta”.
Nell’intervista citata, Battisti insiste e pure i promotori dei sit in al Parco Lambro insistono per organizzargli un concerto, nonostante le voci che fosse simpatizzante fascista, ma dopo varie trattative la proposta non si concretizzò, essendo effettivamente un po’ campata in aria. Per la cronaca un paio d’anni dopo, nel 1976, quell’happening chiuse il suo ciclo degenerando in violenze e atti osceni provocate dall’abbondante uso di droga: molti partecipanti si ritrovarono ad ingrossare le fila di Autonomia Proletaria, il movimento del ’77, protagonista di molte violenze nelle scuole, nelle università e nelle fabbriche.
Ritornando a Battisti, è in questa atmosfera sociale dalla quale viene alla luce “Anima Latina”. La certezza è che questo lavoro discografico dovrà essere una cesura rispetto al repertorio di canzonette suonate con una semplice chitarra acustica e cantate intorno ai falò delle spiagge estive.
Per realizzarlo c’era bisogno di una squadra di musicisti che conoscessero i canoni del progressive rock, che nato in Inghilterra (Genesis, Pink Floyd, Yes) aveva già i suoi epigoni italiani molto attivi discograficamente (Banco Mutuo Soccorso, Orme, Premiata Forneria Marconi, Osanna): nelle sedute di registrazione tra le mura del “Mulino”, una vera e propria residenza “creativa”, Battisti si affida a questo genere di musicisti (che tra l’altro arrivavano proprio dai gruppi protagonisti dei concerti milanesi di Re Nudo) affinché il “concept album” potesse sorprendere e destabilizzare il suo pubblico tradizionale.
Le soluzioni musicali sconfesseranno l’impianto tradizionale strofa/ritornello adagiandosi sui testi di un Mogol in stato di grazia: racconti quasi autobiografici di amori adolescenti con un linguaggio esplicito fuori dalle convenzioni poetiche borghesi, l’incomunicabilità tra mondi diversi, la morale e i sentimenti senza radici, cartoline di territori dalle mille contraddizioni in lotta tra la povertà delle favelas, il potere politico del Nord America e le “promesse illusorie” della società dei consumi, fino alla morte che ti separa dall’amore terreno. Forse le liriche più intense che Mogol ha mai affidato alla musica battistiana.
“Anima Latina” è tuttora un album incatalogabile: la fluidità musicale vola alta tra ritmi sudamericani filtrati da reviviscenze bandistiche, si alternano rarefatti arpeggi chitarristici folk a futuribili introduzioni elettroniche (il moog gran protagonista) con crescendo direttamente ispirati dalle sonorità dei contemporanei Chicago e dei Blood, Sweat & Tears, mentre la voce di Battisti affiora indistinta, filtrata, quasi nel voler nascondere le parole, sorprendendo lo stesso Mogol che abbozzerà perplesso giustificando la scelta del socio ma non facendosene una ragione: sarà la prima tappa dell’irrefrenabile voglia del cantautore di affermare la primizia della musica rispetto alla parola.
L’album uscirà nel novembre del 1974 senza il tradizionale lancio “pilota“ del singolo 45: nell’aria c’era un rischio flop e invece nonostante molti mal di pancia dei dirigenti discografici l’album ebbe un lungo piazzamento in classifica.
“Anima Latina” nella discografia di Battisti non è un semplice album ma un’epopea: tanti sono gli incroci culturali, la sua genesi e il certosino lavoro realizzativo, testimonianza di una instancabile ricerca umana e artistica. E se proprio vogliamo azzardare si scorgono punti di contatto con la causticità ed eccentricità musicale di “Smile” di Brian Wilson, con meno follia e con la grande differenza di non rimanere nel mistero e di essere pubblicato regolarmente.
Battisti non si fermerà e dopo un viaggio, questa volta negli States, avrà occasione di respirare i suoni dell’emergente funky della disco music e, tornato in Italia coinvolgendo il giovane chitarrista Ivan Graziani sfornerà il più pop “La batteria, il contrabbasso, eccetera” nel quale in maniera incoerente abiurerà tutte le dichiarazioni sulla subalternità alla cultura anglofona e si “arrenderà” restituendo il primo piano ai testi di Mogol, ritornati a raccontare storie di banale routine quotidiana.
Sarà l’ultimo lavoro registrato in Italia, dopo quell’album sceglierà solo studi di registrazione tra Hollywood e Londra fino al suo ultimo “panelliano” “Hegel”, dissolvendo sempre più il suo corpo rispetto alla comunicazione “invasiva“ dei mass media.
Ma questa è un’altra storia, della quale (forse) non ne conosceremo mai le (scomode?) verità.
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