C’è un aspetto straordinario dell’interesse che si è recentemente sviluppato attorno al Dna da parte della fisica e della scienza dei materiali e ingegneri: quando le sequenze delle quattro diverse basi che compongono il Dna sono sapientemente selezionate, si autoassemblano spontaneamente delle nanostrutture. Si possono così ottenere delle “supermolecole” che prendono la forma di nanostelline con tre o quattro bracci; queste nanostelline possono attaccarsi tra loro sulle punte dei bracci. Modificando il modo e le condizioni con cui esse si uniscono, si possono produrre strutture liquide oppure di tipo gelatinoso aventi una ampia gamma di proprietà.
A questo risultato è giunto un gruppo interdisciplinare costituitosi all’interno del Dipartimento di Biotecnologie Mediche e Medicina Traslazionale dell’Università di Milano, guidato da Tommaso Bellini e comprendente tra gli altri Roberto Cerbino (fisico) e Rosanna Asselta (biologa molecolare); il team, in collaborazione con fisici teorici dell’Università La Sapienza di Roma, ha iniziato a progettare strutture di Dna che danno luogo a nuovi materiali, come gli stessi scienziati hanno descritto in un articolo recentemente pubblicato su PNAS (Proceedings of the National Academy of Science). Ne abbiamo parlato col professor Bellini.
Professore, perché dei fisici e degli scienzati che si occupano di materiali e nanotecnologie rivolgono il loro interesse proprio alla molecola di Dna?
Il Dna è un polimero, ovvero una molecola a filamento ottenuta congiungendo tra loro i segmenti elementari che sono le basi azotate. Il Dna ha proprietà veramente straordinarie, non solo perché la sequenza delle basi può contenere il codice genetico, ma anche da un punto di vista strutturale. In effetti la ricerca di questi ultimi dieci anni ha mostrato che nanostrutture anche piuttosto complesse possono essere ottenute mediante combinazione spontanea di filamenti di Dna.
L’uso del Dna per la costruzione di nanostrutture sfrutta diverse proprietà di questa specialissima molecola. È innanzitutto fondamentale la selettività dell’interazione tra due filamenti: quando due filamenti di Dna hanno sequenze di basi complementari formano una doppia elica; se due filamenti sono complementari solo per una frazione della loro lunghezza, si forma una doppia elica solo per la lunghezza di quel segmento. Si possono quindi mescolare tra loro filamenti che sono complementari l’uno all’altro solo in determinate parti della loro sequenza. In questo modo un filamento può legarsi ad un altro in parte della sua lunghezza, ad un terzo in un’altra parte e così via.
Un’altra importante caratteristica del Dna è che è una molecola molto flessibile quando non forma una doppia elica, che invece è una struttura piuttosto rigida. Quindi quando dei filamenti di Dna trovano altri filamenti a loro complementari si formano doppie eliche e si irrigidisce la struttura.
Queste proprietà come sono state sfruttate?
Queste proprietà, insieme alla solubilità del Dna in acqua, hanno consentito a diversi gruppi di ricerca a livello internazionale di generare nano strutture di svariatissimo tipo. L’idea è semplicemente di sintetizzare – e al giorno d’oggi è facile – opportuni filamenti di Dna che, una volta solubilizzati in acqua, si trovano e si uniscono laddove le sequenze sono complementari, formando nanocubetti, nanoscritte, nanocapsule, nanolucchetti e nanomacchine. Nelle strutture più complesse si utilizzano decine di filamenti con sequenze diverse, la cui lunghezza tipica è di qualche decina di basi.
In questo campo, tutta la sapienza è esser capaci di determinare le sequenze della basi nei filamenti costitutivi delle strutture. L’aspetto affascinante è che le nanostrutture si autoassemblano spontaneamente in acqua, semplicemente obbedendo alla regola della complementarietà delle sequenze.
Come è nata l’idea di combinare tra loro diversi filamenti di Dna per creare le “supermolecole”?
Poiché la nostra principale competenza è nello studio del comportamento collettivo di sistemi molecolari, abbiamo pensato che potevamo sfruttare questa tecnologia emergente per costruire nanostrutture che a loro volta interagissero formando strutture più grandi. In particolare abbiamo pensato che sarebbe stato interessante realizzare degli aggregati di filamenti di Dna che tendessero ad appiccicarsi tra loro in un numero limitato di posizioni. Le abbiamo chiamate supermolecole nel senso che ognuna di esse è in effetti fatta da tre o quattro molecole di Dna appiccicate insieme nella forma di una nanostellina. Ogni stellina interagisce con le altre tramite le punte dei bracci, che tendono ad appiccicarsi gli uni agli altri. In questo modo, queste strutture imitano le molecole normali, che sempre interagiscono con altre molecole, con il vantaggio di aver deciso noi la forma di queste supermolecole e la forza con cui tendono ad incollarsi le une alle altre.
In altre parole, abbiamo creato un modello molecolare con cui studiare il comportamento d’insieme di una collettività di molecole con valenza limitata. Abbiamo realizzato stelline a tre bracci che quindi interagiscono con le altre solo in tre punti, e stelline a quattro bracci.
Come si può controllare la forma e la struttura di queste supermolecole?
Come dicevo, la forma degli aggregati che abbiamo utilizzato dipende dal numero di diverse sequenze di Dna e dalla loro sequenza. Con altre sequenze, invece di associarsi in nanostelline, le sequenze avrebbero potuto associarsi in triangoli, quadrati, tetraedri o volendo strutture ancora più complesse.
Quello che abbiamo trovato – ovvero che queste stelline possono unirsi formando un gel, cioè una intelaiatura di stelline legate tra loro in modo semipermanente – pensiamo sia dovuto proprio al fatto che le stelline hanno solo un numero molto limitato di posizioni in cui possono attaccarsi. In questo senso, più che la forma dettagliata delle supermolecole, quello che conta è il numero di punti di interazione. Più la valenza, ovvero il numero di ganci con cui ogni supermolecola può legarsi alle altre, è minore, più il gel diventa “vuoto”, una intelaiatura leggera che abbraccia molta acqua.
Cosa vi fa essere fiduciosi nelle possibilità di applicazioni pratiche dei materiali creati col vostro metodo?
In realtà io faccio parte di quel tipo di ricercatori che sono più motivati dalla novità dei fenomeni che dalle loro potenzialità applicative. Ciò detto, la possibilità di costruire in modo semplice questi gel, con le loro fitte e sottilissime intelaiature fatte di Dna, può avere in effetti varie applicazioni, soprattutto nel trattenere e rilasciare altre molecole. Penso al tema del cosiddetto drug delivery, ovvero la necessità che molecole di importanza farmacologica si liberino con un certo e controllato ritardo rispetto all’inserimento nell’organismo. Oppure penso al processo di traduzione del codice genetico in proteine, che può avvenire anche al di fuori dell’ambiente cellulare, ma che è resa più efficiente quando i componenti di questa sintesi sono trattenuti gli uni vicino agli altri.
Ci sono state difficoltà nella collaborazione tra fisici e biologi?
È stato in realtà piuttosto divertente. Questo anzitutto perché le persone in questa collaborazione sono tutte persone aperte, leggere e fondamentalmente allegre. Per collaborare tra discipline diverse bisogna infatti non avere il problema di mostrarsi ignoranti o magari di fare più di una volta la stessa domanda. Ci vuole impegno, ma anche una certa dose di ironia aiuta.
Un aspetto sempre piuttosto stimolante di questa collaborazione sul tema del Dna è quale sia l’origine del fatto che questa molecola così decisiva in biologia abbia anche tutta questa versatilità nel comporre strutture che con la vita biologica c’entrano poco. In qualche modo serpeggia sempre la domanda: il Dna ha tutte queste proprietà che uniscono fisici e biologi perché è una molecola fortunata oppure perché le proprietà meccaniche che sono alla base di questo uso nanotecnologico del Dna sono state o sono in qualche modo tuttora essenziali alla funzione biologica?
Lei cosa risponde?
Penso che la risposta giusta sia la seconda. Dal che sorge un ulteriore interrogativo: quali alternative avrebbero potuto esserci al Dna, nello sviluppo della vita? Viste le proprietà del Dna, difficilissime da imitare con altri polimeri naturali o di sintesi, viene quasi il sospetto che in realtà di alternative potrebbero essercene poche.
E l’idea che la vita possa necessitare di molecole così speciali da essere quasi impossibili da realizzare porta ad un certo interessante stupore inquieto per come sono andare le cose sul pianeta Terra, dove il Dna ha per fortuna trovato il modo di essere sintetizzato.
(Mario Gargantini)