SCUOLA CHIUSA PER RAMADAN/ Non si fa “integrazione” disapplicando la legge, ma insegnando a rispettarla

- Lorenza Violini

Una scuola di Pioltello (Milano) ha chiuso nel giorno (festivo per i musulmani) in cui finisce il Ramadan. Una scelta che ha fatto giustamente discutere

scuola milano islam genitori 1 ansa1280 640x300 Fuori dalla scuola di Pioltello (Ansa)

Una scuola dell’hinterland milanese è salita agli onori della cronaca per aver deciso di tenere chiusa la scuola nel giorno (festivo per i musulmani) in cui finisce il Ramadan. Molte le argomentazioni a sostegno della decisione. Trattandosi di una scuola situata in un quartiere dove prevalgono abitanti di religione islamica, il collegio docenti ha ritenuto di assecondare, ufficializzandolo, l’uso invalso di tenere a casa i figli, data la festività proclamata da questa religione. Si è poi detto che, come si festeggia il Natale, giorno ufficiale di vacanza, in famiglia, così si ritiene di consentire ai ragazzi di quelle famiglie di festeggiare con i loro cari questo momento di festa. E molto altro ancora, nell’ottica della parità tra religioni e dei pari diritti di chi segue religioni diverse: niente privilegi a una di esse, ma pari trattamento da parte del sistema pubblico di istruzione.

La scelta rispecchia certamente un intento buono, di accoglienza e di condivisione, nonché di reciproca conoscenza delle diverse tradizioni ormai ampiamente presenti sul territorio nazionale, anche se – va detto –  la legislazione (nel caso di specie quella scolastica) non è in nessun modo tenuta a trattamenti rigidamente parificatori. Il troppo spesso invocato principio di eguaglianza non esime dal porre in essere, dotandolo della forza coercitiva della legge, trattamenti differenziati, soprattutto là dove sia ragionevole privilegiare certe realtà rispetto a certe altre e dove la pariteticità indiscriminata può creare problemi al funzionamento delle istituzioni.

Basti pensare che, se il tema fosse quello di dare trattamenti uniformi a ciascuno secondo le proprie tradizioni, allora sarebbe problematico consentire a tutti coloro che sono presenti sul territorio nazionale di seguirle, rivendicando la propria specificità; molto probabilmente occorrerebbe chiudere le scuole un numero tale di giornate da rendere difficile perseguire la funzione cui è preposta la scuola stessa.

La legislazione scolastica prescrive che lo Stato stabilisca un numero fisso di giorni di scuola e un numero fisso ed elencato di festività, mentre spetta alle Regioni definire (anche in modo differenziato) l’inizio e la fine delle attività scolastiche; i consigli di istituto hanno la facoltà di individuare qualche marginale ulteriore giornata festiva, che talora non è facile da specificare per motivi anche molto pratici. Il tutto nell’ottica di una gestione autonoma (ma marginale) della tematica, dentro parametri finalizzati a garantire il fine dell’istruzione delle giovani generazioni.

Bene dunque quello che è stato fatto? Al di là delle buone intenzioni, occorre chiedersi qual è il segnale che la società civile riceve a seguito di certe scelte. Se fosse quello di offrire brevi e abbastanza inutili strumenti di integrazione, sinceramente si dovrebbe ammettere che la scelta è palesemente insufficiente. È andando a scuola che si impara l’integrazione, nel lavoro quotidiano, nella frequentazione reciproca e nella reciproca conoscenza, alla ricerca di quel fondamento che aiuta una comunità ad essere coesa nelle diversità, ma anche tutti orientati a far si che tali diversità siano una ricchezza e non strumenti di sostanziale divisione, cui si rimedia una volta all’anno, sventolando la bandiera della tolleranza.

Libere le famiglie di fare le loro scelte, ma libera anche la scuola di richiedere una giustificazione di quanto liberamente scelto ove questo sia in contrasto con le normative di riferimento. Non tutte le tradizioni e non tutte le legislazioni hanno alla base i sacri canoni della libertà, dell’eguaglianza e della fraternità. Le nostre tradizioni e la nostra legislazione si distinguono anche per voler sempre condividere con tutti questo patrimonio.

Su questo andrebbe dunque puntata l’attenzione, senza che gesti, fatti anche in buona fede, ci distraggano dall’essenziale e rischino di far passare in secondo piano proprio le scelte di fondo che connotano la nostra cultura (anche religiosa) e la nostra Costituzione, nel rispetto di tutti ma anche nel riconoscimento di ciò che è proprio della nostra storia.

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