SCUOLA/ Davvero ci basta riaprire per tornare in relazione con gli altri?

- Daniele Ferrari

La scuola è un porto da cui salpare verso il rischio che è la vita. Ma per farlo c’è bisogno di rispondere a un altro, vincendo la stanchezza e la solitudine

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Scrive Byung-Chul Han nel suo La società della stanchezza (nottetempo, 2016): “La stanchezza della società della prestazione è una stanchezza solitaria, che agisce separando e isolando. […] Questa stanchezza stabilisce una profonda cortesia e rende pensabile una società che non ha bisogno di appartenenza né di legami di parentela. Uomini e cose si rivelano connessi da una e cortese. […] La ‘stanchezza fondamentale’ annulla l’isolamento egologico e fonda una comunità che non ha bisogno di parentele”.

Tante volte in questo anno scolastico di isolamento e scuola a distanza ho avvertito questa stanchezza solitaria, più pesante del solito, aggravata – non alleviata – dal moltiplicarsi delle connessioni. Una stanchezza che fa passare la voglia, come per “l’uomo solo” di Pavese, che nello Steddazzu “vorrebbe soltanto dormire”.

Per questo mi sono suonate sorprendenti e vitali le parole con cui un mio alunno, in un lavoro di fine anno, ha motivato la scelta del personaggio dei Promessi Sposi da approfondire: “Ho scelto il cardinale Federigo Borromeo perché secondo me è un esempio da seguire di perdono e redenzione: trovo che tutti nel mondo debbano almeno una volta nella vita incontrare una persona così, che sappia capirti e perdonarti per gli errori che hai fatto”.

Queste parole esprimono l’attesa di una relazione, e svelano anche che per uscire da questo isolamento che sfinisce non basterà neanche tornare, come in parte sta già avvenendo, a una vita sociale con meno restrizioni e più aperture. Non sono sufficienti “gli altri” in senso generico, ci vuole un “certo altro”, che risponda a una esigenza profonda. Si è visto infatti, come documentano i tanti episodi di sfogo anche violento, che non basta “riaprire” perché questa solitudine venga sconfitta: per vincere la solitudine ci vuole una relazione con qualcosa di Altro-da-sé che costituisca una provocazione alla vita. Altrimenti, come è documentato da altrettanti casi tra i giovani, si preferisce restare dentro, per la paura di quello che ci può essere fuori.

Nota sempre Byung-Chul Han: “Il riferimento mancante all’Altro causa in primo luogo una crisi della gratificazione. Quest’ultima in quanto riconoscimento, presuppone l’istanza dell’Altro. […] Nell’esperienza incontriamo gli Altri. L’esperienza è trasformante, alter-ante”.

Per salutare i miei alunni di quinta ho letto loro una delle mie poesie preferite di Giorgio Caproni, Il fischio (parla il guardiacaccia) (Garzanti 1999), in cui un guardiacaccia si congeda da una compagnia con cui sta giocando a carte e bevendo vino per rispondere al fischio che ha sentito provenire dal bosco; ai suoi amici, impauriti per il buio che lo attende fuori, confida: “Lasciatemi perciò uscire. / Questo, io vi volevo dire. / Per quanto siano bui / gli alberi, non corre un rischio / più grande di chi resta, colui / che va a rispondere a un fischio”.

Vale la pena rischiare e uscire nel buio perché si è sentito il richiamo alterante di un fischio: così l’esperienza diventa una risposta, ed è vinta la solitudine tipica della società della prestazione. Forse è questa la definizione più semplice e convincente di cosa sia la maturità: la disponibilità a rispondere a un fischio, ad aprirsi al rapporto con l’altro come esperienza di scoperta di sé, perché “chi fabbrica una fortezza / intorno a sé, s’illude / quanto, ogni notte, chi chiude / a doppia mandata la porta”.

Mi piace immaginare che la scuola sia stata per i miei alunni un porto da cui salpare, verso il rischio che è la vita. E capisco che potrà esserlo anche per quelli che rivedrò a settembre, solo se in essa si stabiliranno relazioni essenziali, vitali, in un certo modo stabili, come dice una poesia dell’ultimo straordinario libro di Milo De Angelis, Linea intera, linea spezzata (Mondadori 2021):

Caramelle di menta

Da quanto tempo non andavo al Centro Schuster,
da quanto tempo non sentivo le frasi sconnesse e favolose
di Drino Danilovič, il primo allenatore,
con il berretto a visiera, quello che accarezzava la porta
con il suo fazzoletto di cotone e con una vampata
di parole folgorava gli ippocastani.
“Mister, lei è ancora qui, nel campo a nove giocatori,
è ancora qui con lo stesso taccuino e la stessa matita.”
“Sono sempre stato qui e ti aspettavo ragazzo.
Ma tu? Sei rimasto l’inquieto pulcino
che correva sulla fascia e poi tremava? Oppure sei riuscito
a far pace con la vita? Mister, non lo so, ma sono qui,
sono tornato per saperlo.”
“Sono soltanto tre, posso dirtelo, le regole del bene,
soltanto tre: portare il pallone nel soffio
della prima altalena, portare ogni dribbling in un balletto
astrologico, trovare in una stella
l’attimo giusto per il calcio di rigore.”

Se la scuola è questo luogo in cui si può anche tornare, se il maestro è questo “altro” che resta lì ad aspettarti e sa connettere ogni particolare con l’armonia del cosmo, allora si capisce, in questa fine d’anno, perché gli addii e gli arrivederci siano in fondo la stessa cosa. 

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