Per cercare di capire cosa sta realmente succedendo in Medio Oriente, e più precisamente nella striscia di Gaza, è utile ricostruire i fatti, visto che troppe parole, proclami, promesse sono andate sempre disattese.
I numeri
Il massacro terrorista di Hamas risale al 7 ottobre 2023, causando la morte di 1.200 persone, soprattutto civili, 251 rapiti e 5mila razzi sparati contro il territorio israeliano. Da quel giorno ad oggi, quindi, si contano 468 giorni di guerra, con la tremenda reazione di Tel Aviv che ha causato circa 46mila vittime (ma secondo un report pubblicato dall’inglese The Lancet il bilancio sarebbe più pesante del 40%).
L’altro giorno si è arrivati alla sofferta firma di una tregua di 42 giorni, nella prima fase, che dovrebbe consentire il rientro degli sfollati e l’arrivo di 500 camion di aiuti umanitari al giorno. Il punto fondamentale è comunque lo scambio dei prigionieri, e qui i numeri stridono violentemente: nei 42 giorni della fase 1 torneranno a casa 33 dei 98 ostaggi israeliani rimasti nelle mani di Hamas (ma forse sono molti meno, visti i decessi sopravvenuti durante la prigionia), in “cambio” di circa 1.000 palestinesi (in totale dovrebbero essere 2mila) tra quanti sono rinchiusi nelle carceri di Tel Aviv, molti condannati all’ergastolo.
Una sproporzione che è stata tra i motivi più forti nella contestazione alzata dai sei ministri ultraortodossi e dagli estremisti coloni alla riunione del governo di Netanyahu che alla fine ha sdoganato la tregua, mentre tre ministri di Potere Ebraico se ne andavano sbattendo la porta. Pur sapendo – come suggerisce Haaretz – che quando i primi ostaggi rilasciati condivideranno gli orrori che probabilmente hanno vissuto, il clamore del pubblico per liberare i restanti prigionieri diventerà ancora più forte. Ma se Trump costringerà in ogni caso Netanyahu a passare alla seconda fase, la coalizione del primo ministro probabilmente non riuscirà a sopravvivere.
Le strategie
Numeri a parte, è evidente che, se potesse, il leader israeliano farebbe piazza pulita delle macerie della Striscia e trasformerebbe tutta l’area in un parcheggio. Per di più, la tregua firmata su pressione degli Usa, del Qatar e delle opinioni pubbliche mondiali, dopo la cessazione delle operazioni militari e il ritiro progressivo da Gaza delle forze israeliane, dovrebbe portare alla fase della ricostruzione e dell’entrata a Gaza dell’Autorità Palestinese di Abu Mazen, il presidente già abbondantemente delegittimato nella West Bank e adesso designato leader dell’enclave, un passo decisivo per la nascita dei famosi Due Stati, per Netanyahu vero fumo negli occhi.
La debolezza di Abu Mazen è considerata, ed effettivamente è, una premessa per il ritorno al potere a Gaza, in qualche modo, degli integralisti filoiraniani di Hamas. È più che evidente che i miliziani non sono scomparsi, anzi oggi sono più intransigenti che mai, guidati da un altro Sinwar, Mohammad, detto “shadow”, ombra, il fratello di Yahya Sinwar, l’ideatore dell’attacco del 7 ottobre. Ed è scontato che parecchi palestinesi di Gaza sopravvissuti ai bombardamenti (motivati dalle perdite subite di parenti e amici) siano più che disposti a condividere credo e scopo di Hamas: nuovi adepti per la guerriglia. È stata (ed è) una guerra che alimenta le file della guerriglia nemica, insomma.
È anche chiaro che chiudendo almeno temporaneamente il capitolo Gaza, Israele potrà concentrarsi meglio sugli altri fronti aperti: il Libano già parzialmente controllato ma ancora con grosse presenze di Hezbollah, oggi teatro di una tregua iniziata il 27 novembre per scadere il prossimo 27 gennaio; lo Yemen dei ribelli Houthi, che ancora, come l’altro ieri, nonostante i ripetuti strike di Tel Aviv e delle forze angloamericane, trovano la forza e le munizioni per sparare missili contro l’odiato Stato ebraico; la Siria, considerata una potenziale piattaforma per raid islamisti; e vari altri insediamenti filoiraniani nascosti entro i confini di Giordania, Iraq, Afghanistan.
Per non parlare dello stesso nemico numero uno, l’Iran, motore del mondo sciita, ispiratore, finanziatore e armiere di tutti i gruppi anti-Israele citati sopra. Resta sempre sul tavolo del gabinetto di guerra israeliano l’opzione no atomic war, ossia la distruzione dei siti di arricchimento dell’uranio iraniani (opzione che sembra benvista anche dagli Usa), preludio dell’assemblaggio di un ordigno nucleare, che modificherebbe pericolosamente il quadro delle forze dell’area.
La tregua di Gaza
Per tutti “fragile” e subordinata all’andamento della liberazione dei prigionieri, formalmente ha una durata di 60 giorni. Ma Netanyahu ha detto chiaramente che riprenderà la guerra “se la seconda fase dell’accordo dovesse rivelarsi improduttiva”. E la cronaca di ieri, con avvilenti tira e molla, con le IDF che hanno bombardato Gaza nord anche dopo l’ora x stabilita (le 8.30), con Hamas che tardava a fornire la lista dei rilasciati (ieri le prime tre donne ostaggio israeliane: Romi Gonen, Emily Damari e Doron Steinbrecher), non induce all’ottimismo, malgrado al confine sud, sul lato egiziano, al famoso corridoio Filadelfia, si stiano concentrando i convogli di aiuti umanitari, in attesa di poter entrare.
Sempre ieri centinaia di palestinesi festeggiavano la tregua a Gaza, ancor prima dell’orario fissato per il cessate il fuoco, le 8.30, poi rinviato alle 10.15, e migliaia si sfollati abbandonavano le tendopoli e facevano ritorno nelle città divenute materiale di risulta, per scoprire che la propria abitazione è diventata un cumulo di macerie, e che il loro destino probabilmente sarà una nuova tenda in una Gaza trasformata in un desolante campo profughi, tra carestia e malattie fuori controllo.
Le incognite
Sono ancora tanti, troppi i punti di domanda e le incertezze sull’accordo e sul futuro che attende il Medio Oriente. Ad esempio, dopo lo scambio di prigionieri, ci sarà davvero la fine della guerra oppure la tregua sarà servita solo allo scambio e poi si riprenderà come prima? Su tutto, incombe l’effetto Trump, che nessuno osa prevedere, vista anche l’estrema volubilità delle sue politiche estere. Quale sarà la postura Usa? Il 7 gennaio scorso Trump diceva che se Hamas non avesse rilasciato gli ostaggi israeliani in Medio Oriente si sarebbe scatenato l’inferno. Cos’ha voluto dire? È stata solo una boutade per accelerare la firma della tregua o una promessa di nuovi impegni militari Usa nel quadrante? Vero è che nella stessa esternazione Trump ha anche anticipato le sue mire su Panama e Groenlandia, una sorta di strategia simil-Risiko che ha lasciato tutti interdetti: solo le solite sparate o un nuovo corso dell’America first?
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