Il virus che cambia il nostro sguardo

- Fernando De Haro

Quanto sta accadendo ci costringe a cambiare e a cercare nella realtà qualcosa di più forte della nostra solitudine e del nostro smarrimento

coronavirus
Coronavirus al microscopio, elaborazione grafica (Web, 2020)

Abbiamo perso dei genitori e non siamo stati in grado di salutarli. Molti sono negli ospedali dove non possiamo raggiungerli. Abbiamo malati a casa, con la speranza che il loro sia un caso lieve. Il cellulare è diventato uno strumento di tormento. Come ha notato lo scrittore José Ángel González Saiz, “ci sono momenti in cui nella vita di un Paese e di una persona la realtà, cruda, irrompe“. La realtà, la malattia o la morte, il limite, l’incapacità di prevedere tutto, era lì ma non l’abbiamo vista. Ora ha irrotto in modo rumoroso. “E improvvisamente ci siamo accorti di tutta la frivolezza ideologica ed emotiva in cui eravamo immersi”.

Ci siamo resi conto di aver sprecato tutto il tempo in scontri assurdi, accentuando le differenze. Ci siamo resi conto che una vita prospera e sicura non può essere data per scontata. All’improvviso ci siamo resi conto che ci sono persone che stanno dando la vita perché non ci siano più morti. Improvvisamente “la distanza tra i fatti e le narrazioni, tra i nomi delle cose e le cose stesse, si è ridotta al minimo” e “la realtà ci coglie disarmati e prigionieri delle abitudini mentali più controproducenti”. Si rendono quindi urgenti ragioni e affetti per affrontare la morte, per conviverci, per affrontare l’incontrollabile, così che la paura dell’imprevisto non ci paralizzi.

Le nostalgie di altri tempi giocano contro e le proiezioni su quando tutto questo sarà finito ci suonano come stupide consolazioni. La realtà è entrata senza chiedere permesso e vogliamo essere sicuri che siamo più dell’epidemia, delle incertezze che subiamo, delle conseguenze di una crisi economica che sta per paralizzare ogni attività. Più i nuovi tempi diventano esigenti, più ci sembra ridicola e superata la vita di un mese fa. Un mese fa era ragionevole lamentarsi perché non c’era questo o quello, ora sappiamo che non ci sono abbastanza maschere, sappiamo che non ci sono respiratori. Un mese fa ci sembrava normale che i politici facessero discorsi ideologici, che fossero triviali, che si dedicassero a occupare ogni spazio, ci sembrava quasi normale che ci fosse una distanza abissale tra i fatti e i discorsi. E non possiamo più sopportare ciò che González Saiz, con l’espressione di Péguy, chiama i “chierici contro la realtà”. Per questo ci risulta noioso e infantile che si cerchino capri espiatori, che ci venga fatta la predica sui presunti benefici dei modelli asiatici in cui la mancanza di libertà è più efficace nella lotta contro le pandemie o sulla fine di Trump.

Ora ciò di cui abbiamo bisogno è di rendere “le viscere della realtà il cuore dell’intelligenza”. Cosa c’è nelle viscere della realtà per rendere un cuore intelligente? Quella che indica l’autore di “Ojos que no ven” è una sfida molto urgente. Senza affrontarla usciremo dalla pandemia uguali o peggiori. Qualsiasi discorso è inutile, quando non siamo stati in grado di seppellire i nostri morti abbiamo bisogno di sapere (“cuore intelligente”) se “nelle viscere della realtà” c’è qualcosa di più forte della nostra solitudine e della nostra impotenza. Prima non parlavamo di queste cose. Abbiamo bisogno di sapere dove sono le risorse per la ricostruzione necessaria, dove la realtà è più positiva, più forte della pandemia.

Dalle viscere della realtà proviene l’immensa energia, dedizione e gratuità de medici e degli infermieri. I volontari che distribuiscono cibo, le aziende che mettono a disposizione le loro risorse per combattere la malattia. Ogni sera, alle otto, applaudiamo i sanitari. Applaudendo e guardando in faccia quelli che sono i nostri vicini, con i quali non avevamo parlato, ci scopriamo con uno sguardo nuovo. Improvvisamente scopriamo che siamo uniti nel desiderio di un destino buono per coloro che soffrono, che combattono contro la malattia. Improvvisamente scopriamo il valore dell’educazione.

Queste viscere della realtà vanno dal micro al macro. E la classe dirigente deve ancora comprendere la dimensione della sfida. Proprio come noi guardiamo in modo diverso dalle finestre, occorre guardare in modo differente la politica economica. I vecchi obiettivi di deficit e debito non servono. La Bce ha corretto rotta e infine approvato un pacchetto di quasi 900 miliardi per l’acquisto di asset. I Paesi dell’Ue hanno mobilitato 1,3 mila miliardi di garanzie di credito. Non è abbastanza. Una politica monetaria espansiva, con linee di credito, non è sufficiente. Servono gli eurobond. È necessario mettere i soldi nelle tasche dei cittadini.

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