Biden ha salutato gli americani due giorni dopo aver dato l’addio solenne al suo predecessore Jimmy Carter. Due presidenti “dem”, entrambi fermati al termine del loro primo mandato: non rieletto Carter, nettamente sconfitto da Ronald Reagan nel 1980; non ricandidato dal suo stesso partito Biden. I due hanno ora in comune anche le circostanze conclusive dei loro quattro anni alla Casa Bianca, entrambe legate alla liberazione di ostaggi.
Il 20 gennaio 1981 – mentre Reagan stava giurando come quarantesimo presidente – furono liberati 52 ostaggi americani detenuti a Teheran per 444 giorni. Erano i funzionari dell’ambasciata Usa in Iran, presa d’assalto dai pasdaran del nuovo regime rivoluzionario islamico poco dopo il ritorno a Teheran dell’ayatollah Khomeini e la fuga dello Scià Reza Pahlavi. Gli ostaggi furono liberati (tutti e vivi) dopo lunghi negoziati condotti dall’amministrazione Carter: non prima di un tentativo fallito di blitz militare americano in Iran e poi a condizioni umilianti per gli Usa, che dovettero fra l’altro togliere le sanzioni imposte ai beni iraniani all’estero. Furono dunque ben leggibili le ragioni della beffarda decisione di Teheran di consegnare gli ostaggi non a Carter ma al nuovo presidente.
La crisi iraniana certamente fu la causa principale del declino traumatico della presidenza democratica seguita all’implosione di quella Nixon attorno al caso Watergate. Non fu in ogni caso l’unico colpo fatale. Carter non era riuscito ad arginare la lunga fiammata inflazionistica globale seguita alla guerra del Kippur, la quarta guerra mediorientale attorno a Israele. Proprio su quello scacchiere geopolitico Carter aveva messo a segno un punto di primo livello con gli Accordi di Camp David, che normalizzarono i rapporti fra Israele ed Egitto. L’autunno del 1980 portò invece a un raffreddamento della distensione fra Usa e Urss: Mosca decise di invadere l’Afghanistan, in funzione protettiva rispetto al “risorgimento islamico” iniziato in Iran.
Dopodomani – 44 anni dopo – entrerà in vigore il cessate il fuoco fra Israele ed Hamas, al termine di un’ennesima guerra che gli analisti faticano ormai a classificare (quella iniziata il 7 ottobre 2023 è stata certamente la terza guerra di Gaza, dopo due precedenti “intifade” palestinesi e la guerra del Libano dei primi anni 80). Lunedì 20, quando davanti al Campidoglio Biden passerà le consegne a Trump, sono attesi al rilascio i primi di 33 ostaggi israeliani ufficialmente in lista (secondo i media di Gerusalemme sarebbero 98 quelli ancora mancanti all’appello, di cui 36 già dichiarati morti). Il 7 ottobre – lunedì saranno 472 giorni – Hamas rapì 255 israeliani (157 sono nel frattempo tornati a casa). Israele – secondo gli annunci del Qatar – si è impegnata a liberare circa 1.000 detenuti palestinesi.
Fra le vittime della guerra di Gaza (46.700 quelle palestinesi dichiarate da Hamas) è difficile non annoverare lo stesso Biden, rimasto impantanato in un’estenuante escalation da parte del premier israeliano Netanyahu. È certo, fra l’altro, che alcuni ostaggi siano morti nei rifugi-prigione di Hamas, bombardati dalle armi pesanti ininterrottamente fornite dagli Usa alle forze israeliane. È stato così che Biden si è ritrovato lui stesso ostaggio di Netanyahu, sodale di ferro di Trump. Precludendosi il ritorno alla Casa Bianca.
Da quel gennaio 1981 i repubblicani tennero la presidenza Usa per tre mandati: 12 anni nei quali il mondo cambiò in modo profondo, accelerato, per gran parte imprevisto. È (stata) un’altra storia.
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