La nascita di un pianeta come la nostra Terra è un evento tutt’altro che tranquillo e non è certo il prodotto di automatici meccanismi della natura. Anzi, è una fortuna che noi oggi possiamo parlarne perché, secondo i modelli più accreditati per descrivere la formazione dei pianeti, non è ben chiaro come il baby pianeta Terra abbia potuto sopravvivere ai suoi primi burrascosi momenti di vita. I modelli infatti si basano sul presupposto di una temperatura pressoché costante del disco proto planetario, composto di gas e polveri interstellari, dal cui dissolvimento sono poi emersi i pianeti. Ebbene, tali modelli porterebbero alla conclusione che la Terra, una vota dissolto il materiale del disco, vada a scivolare verso il Sole e possa essere risucchiata nel suo corpo ultrabollente.
Un recente studio condotto da astrofisici dell’American Museum of Natural History e dell’Università di Cambridge, con l’ausilio di potenti strumenti informatici di simulazione, ha risolto l’enigma della sopravvivenza del nostro pianeta, pur lasciando la nostra comune esistenza ancor più appesa a una serie di sorprendenti coincidenze.
Abbiamo raggiunto uno degli autori dello studio, poco dopo la sua presentazione nel corso del raduno annuale della American Astronomical Society a Washington: è Mordecai-Mark Mac Low, curatore della sezione di Astrofisica e titolare della cattedra di Scienze Fisiche al Museo di Storia Naturale della capitale americana e noto anche al pubblico italiano per una sua spettacolare partecipazione al Meeting di Rimini nel 2006.
Quali erano i limiti dei precedenti modelli di formazione dei pianeti?
Il loro limite principale era che partivano da assunti troppo semplificativi circa la relazione tra temperatura e pressione nel disco gassoso dal quale sono derivati i pianeti; così erano indotti a trascurare il fatto che il gas si muoveva vicino al pianeta ma non esattamente sulla sua orbita.
Perché quindi, secondo questi modelli, l’esistenza della nostra Terra appariva così improbabile?
Dobbiamo riferirci a uno specifico capitolo della storia evolutiva di un corpo come la Terra, quando il pianeta appena formato preleva una forza dal disco gassoso dal quale è nato. Questa forza causa un cambiamento dell’orbita del pianeta, secondo un meccanismo che chiamiamo migrazione. La direzione della migrazione dipende in modo considerevole dal profilo di temperatura del disco circostante. I modelli precedenti assumevano che la temperatura fosse costante e ciò produrrebbe una rapida migrazione verso il Sole. Una simile migrazione dei giovani pianeti verso l’interno è troppo rapida: se i pianeti si muovessero davvero verso il Sole a tale velocità, precipiterebbero tutti sul Sole prima dell’evaporazione del disco.
Come si può descrivere allora l’interazione dei planetoidi col disco gassoso?
L’attrazione di gravità del pianeta agisce sul gas provocando la formazione di bracci a spirale e addensamenti vicino all’orbita planetaria. A loro volta questi addensamenti hanno effetti gravitazionali sul pianeta: si tratta allora di capire se il risultato finale è la migrazione verso l’interno, come vorrebbe la teoria classica, oppure se la spinta è verso l’esterno.
Qual è il ruolo della temperature del disco protoplanetario sulla formazione del pianeta?
In base a un profilo realistico della temperatura del disco , la migrazione può essere diretta verso le regioni più interne del disco stesso; queste zone agiscono come una sorta di rete di sicurezza per i neonati pianeti, finché questi concludono il loro viaggio non appena raggiungono le regione opaca. Via via che il disco lentamente evapora, diventa meno opaco e la rete di sicurezza si sposta verso il Sole; però è una migrazione lenta a sufficienza per consentire a un pianeta come la nostra Terra di sopravvivere.
Che tipo di modelli avete utilizzato nelle vostre ricerche?
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Il co-autore dello studio, Sijme-Jan Paardekooper della Università di Cambridge, ha utilizzato delle innovative simulazioni dalle quale si evidenzia che la direzione della migrazione di pianeti di massa modesta dipende fortemente dalla distribuzione delle temperature. Paardekooper ha adattato un modello mono dimensionale sviluppato da un nostro post-doc (Wladimir Lyra); la rinuncia ai modelli tridimensionali dipende dai loro elevati costi in termini computazionali, tali permettere di seguire l’evoluzione del disco fino a circa cento orbite, cioè più o meno mille anni. Noi invece vogliamo vedere cosa succede lungo l’intero ciclo di vita del disco che copre molti milioni di anni.
Qual è il grado di affidabilità delle vostre simulazioni?
Ci sono molti dettagli che possono variare da un sistema planetario all’altro: come le proprietà delle polveri, la storia dell’accrescimento del gas durante la formazione della stella, la massa della stella e così via. Di conseguenza, abbiamo dovuto applicare delle approssimazioni per stimare tali peculiarità. Tuttavia, le simulazioni che abbiamo presentato offrono una buona visione qualitativa dei meccanismi che agiscono nei dischi protoplanetari reali