Solo l’ipotesi che dal ministero dell’Istruzione e del Merito siano pubblicate nuove Indicazioni nazionali ha suscitato una ridda di commenti.
È tipico della cultura italiana: di scuola vogliono parlare tutti. Questo dice da un lato di un popolo che ancora guarda a questo luogo con una fortissima stima, dall’altro apre a un approccio sempre terribilmente ideologico.
La scuola continua ad essere un campo di battaglia in cui prevale un approccio fortemente politicizzato, spesso sostenuto da persone, compresi, ahinoi, molti accademici, che hanno – se va bene – il ricordo della propria scuola o al massimo di quella frequentata dai propri figli, ma pochissima esperienza del contesto reale attuale.
I dati demografici non fanno sconti: nella scuola primaria oggi il 32,6% ha cittadinanza non italiana, a questa cifra vanno aggiunti gli studenti con genitori non pienamente italofoni, un’altra quota importante di studenti con bisogni particolari è determinata dalla presenza sempre più rilevante di bambini e di adolescenti portatori di enormi sofferenze di natura emotiva, psicologica o cognitiva, che vivono in famiglie nella migliore delle ipotesi con problemi di relazione, e se va male con un alto livello di aggressività.
Preso atto pertanto che la priorità del cambiamento nella scuola dai 6 ai 15 anni non sembrerebbe pertanto quella di discutere sull’opportunità o meno della reintroduzione del latino o della centralità della storia italica, affrontiamo pure la questione.
È auspicabile innanzitutto che da parte della commissione incaricata di mettere mano alle nuove Indicazioni non ci sia stata alcuna volontà di riprodurre una didattica ideologica. Il latino, se insegnato da docenti che lo conoscano molto bene, ma solo in questo caso, può sicuramente offrire competenze straordinarie di tipo logico (si pensi alla struttura dei casi o della consecutio temporum), ma può soprattutto generare una notevole competenza espressiva grazie al lavoro sulle etimologie e dell’arricchimento del lessico e in progress delle capacità argomentative.
Tremo all’idea che si riduca al ros-a, ros-ae che nelle classi multietniche e con le problematiche attuali suonerebbe davvero anacronistico.
Chi lo insegnerà? La cattedra dei docenti di lettere nella scuola secondaria di primo grado attualmente in servizio è coperta da docenti che a questa disciplina hanno talora dedicato davvero poche energie e tutti sappiamo quanto sia difficile insegnare in maniera corretta proprio i primi rudimenti della disciplina!
Per quanto riguarda la storia italica il discorso si fa più complesso ancora. Il termine “storia” deriva da una radice “id” che ha una fortissima connessione con la dimensione dell’indagine critica, non certo con la storia elenco di “grandi” personalità come quella dei sussidiari del dopoguerra: Camillo, Coriolano, Cincinnato, i Gracchi, Mario, Silla, Cesare, Pompeo…
Proprio la storia romana, a cui parrebbe il ministero stia guardando per rinforzare di italianità i programmi, è per sua natura una storia fortemente interculturale. L’Italia antica non è solo Roma; lo studio presupporrebbe la conoscenza di popoli italici che poco spazio hanno nei libri di testo e un’ampia riflessione sul rapporto fra Roma e le altre popolazioni che anticamente abitavano il continente europeo, l’area del Mediterraneo e la cosiddetta Asia Minore.
Interessante la proposta di mettere fine alla “geostoria” separando la storia dalla geografia, ma anche qui sarebbe necessario dare alla geografia una centralità di cui la contemporaneità ha enormemente bisogno. Si tratta infatti di una disciplina che si è in questi decenni straordinariamente arricchita della relazione con altre discipline, in una prospettiva feconda di compito unitario di apprendimento, a cui è auspicabile che le nuove Indicazioni guardino.
Questa sottolineatura nelle Indicazioni sulla specificità delle discipline appare sinceramente controtendenza. Soprattutto nel primo ciclo di istruzione lo statuto epistemologico delle discipline interroga anche le altre, il cosiddetto “sapere a canne d’organo” è forse un po’ obsoleto.
Due ultime considerazioni. Bene la centralità della lettura: in Italia si legge poco, o perlomeno pochi leggono moltissimo e molti leggono pochissimo. Con un trend sempre più allarmante. La scuola nel primo ciclo ha grandi possibilità di colmare questo iato; riuscirà nel suo intento se questo invito alla lettura sarà accompagnato con interventi formativi in collaborazione con genitori e associazioni dei territori.
Bambini che a scuola si troveranno ad affrontare, imparandoli anche a memoria, testi ambiziosi della nostra tradizione (per altro già molto impegnativa per i nativi, immaginiamoci per i neoarrivati o gli italiani di seconda generazione) e poi nei lunghi pomeriggi di solitudine, abbandonati al dialogo con i devices, poco trarranno da questa rivoluzione! Infine la lettura potrà essere un volano di recupero e di sviluppo solo se riconosciuta dai genitori e dall’intero contesto una grande opportunità.
Pertanto l’applicazione delle nuove Indicazioni dovrebbe essere accompagnata dall’incremento dei gruppi di lettura, di biblioteche più fruibili, da un ripensamento della programmazione televisiva nella fascia pomeridiana (ora quasi totalmente destinata ai piccolissimi o agli over 65). La scuola, da sola, non basta!
Un ultimo suggerimento: le Indicazioni apriranno una corsa dell’editoria scolastica. È auspicabile che gli autori di testi scolastici esauriscano la fase degli esercizi a crocette e a semplice completamento e riprendano, almeno per l’area umanistica, proposte di esercizi capaci di sviluppare competenze espressive e logico-sintetiche e non meramente “reattive”. La logica della risposta breve e immediata può andar bene nel quiz a premi, ma non per un soggetto discente in fase evolutiva.
Preme concludere come la tradizione della scuola italiana sia ricca di insigni pedagogisti e di grandi maestri (dalla Montessori a Mario Lodi), la strada da loro segnata è ancora percorribile.
Di fronte alle nuove Indicazioni, assolutamente legittime da parte del ministero, ancora una volta occorrerà sviluppare dentro le scuole una riflessione, una ricerca tesa a una valorizzazione della didattica della personalizzazione, capace di generare nei bambini e nei ragazzi il fascino dello studio, della riflessione, del desiderio di conoscenza, comunicato da docenti a loro volta colti e appassionati, probabilmente ancora più appassionati se meglio retribuiti.
Fuori dalla scuola sarà da promuovere invece la valorizzazione di tutte quelle esperienze di condivisione della responsabilità culturale ed educativa che possano offrire ai genitori una sponda, un contributo serio ma in una prospettiva di autentica sussidiarietà al grande compito di far diventare grandi i piccoli affidati.
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