Trump non vuole guerre che ostacolino i suoi affari, e il suo programma per fare in modo che l’America sia first anche dal punto di vista economico non prevede l’uso della forza. Prevale l’animo del businessman, che magari fa pesare la potenza militare americana, ma vuole usarla soprattutto come arma di negoziazione, per conseguire i risultati migliori dal punto di vista degli affari. Sarà questo criterio, spiega Marcello Foa, giornalista, docente universitario, già presidente Rai e conduttore di “Giù la maschera” su Rai Radio1, che guiderà Trump nella sua politica estera. C’è motivo di credere, insomma, che con lui finirà la guerra in Ucraina e l’Iran non verrà attaccato. Non una buonissima notizia per Netanyahu e il suo governo.
La tregua a Gaza è il primo risultato di politica estera dell’amministrazione Trump. Ma quale sarà la sua strategia complessiva, in Medio Oriente e non solo lì?
Innanzitutto bisogna capire cos’è successo, per quale motivo si è raggiunto un accordo, ammesso poi che regga. La chiave di volta è un dettaglio sfuggito ai più: Netanyahu (come anche Ursula von der Leyen) non è stato invitato alla cerimonia di giuramento del nuovo presidente USA di lunedì. Un segnale molto forte: l’ottimo rapporto che Trump aveva con il premier israeliano, dopo la prima presidenza si è un po’ guastato. In seguito, quando Biden è stato eletto alla Casa Bianca, Netanyahu è saltato subito sul suo carro e Trump non l’ha presa bene. Ora Netanyahu sa di non poter più avere le mani libere come ha avuto di fatto con l’amministrazione democratica.
Insomma, Netanyahu deve recuperare terreno con Trump?
L’amministrazione Biden chiedeva di non colpire i civili palestinesi, minacciando di interrompere l’invio delle armi. Ma poi tutto continuava come prima. Netanyahu ha capito che con Trump non potrà accadere e si è affrettato a raggiungere un accordo: è bastata una seduta con il prossimo inviato americano in Medio Oriente, Steve Witkoff, per indurlo a essere più dialogante.
Ma gli obiettivi di Trump in Medio Oriente quali sono?
Agisce secondo i suoi schemi mentali e le sue priorità, diverse rispetto a quelle delle amministrazioni precedenti: Bush, Obama e Biden. Il suo primo obiettivo è anteporre gli interessi economici americani. Ha una fissazione: se l’America vuole continuare a essere la prima potenza mondiale deve poter essere forte in tutti i settori, deve riportare il più possibile le fabbriche negli USA, riducendo qualunque tipo di dipendenza dall’estero, inclusa quella relativa alle terre rare.
Quindi come si comporterà?
Secondo lui gli Stati Uniti hanno la supremazia militare e tecnologica, però, dal punto di vista economico, la globalizzazione li ha indeboliti. La politica estera quindi sarà volta a ridare più potere economico agli USA, convogliando in patria tutte le risorse: un cambio di rotta notevolissimo. Per capire come procederà Trump bisogna comprendere come fa le trattative, lo spiegava lui stesso in un libro alcuni anni fa: fa la voce grossa, dimostra di essere molto più potente della controparte e a quel punto chiede 10 per ottenere 3 o 4. Chi cede crede di aver spuntato condizioni vantaggiose, in realtà Trump aveva raddoppiato le richieste con l’obiettivo di ottenere qualcosa di meno.
Una tecnica classica da venditore.
L’ha praticata già nel primo mandato, ma allora non aveva il controllo dell’amministrazione. Adesso invece ha fatto esperienza, si sta circondando di persone di sua fiducia: potrà essere molto più incisivo. In questa logica Trump non ha nessuna voglia di fare guerre in giro per il mondo, ostacolerebbero i suoi programmi. Verosimilmente cercherà di risolvere le crisi internazionali senza un uso irragionevole o prolungato della forza, come invece accadeva con Obama e gli altri presidenti americani.
Se applichiamo questo criterio al Medio Oriente, vuol dire che Israele se lo sogna di attaccare l’Iran?
Ci deve essere una ragione molto forte. Il paradosso è che la destra americana è pro-Israele in maniera addirittura fideistica, ma con Trump l’Israele di Netanyahu rischia di essere più debole. Con l’Iran bisogna capire che cosa ha in mente: dipenderà molto dall’atteggiamento degli iraniani, dal possibile accordo con la Russia sull’Ucraina e da come si parametrerà con la Turchia. È una partita aperta, ma in cui le regole del gioco saranno basate su elementi negoziali e valutazioni “trumpiane”.
Evitare che l’Iran possegga armi nucleari può essere una ragione sufficiente?
Gli analisti militari spiegano che Israele ha usato talmente tante armi a Gaza, in Libano, in Siria e con gli Houthi che ora è molto vulnerabile. Se l’Iran volesse lanciare una pioggia di missili in sequenza su Israele, molti di questi, o la maggior parte, bucherebbero le difese. Tel Aviv, insomma, ci penserà bene prima di attaccare. Inoltre l’America è autosufficiente sul petrolio, grazie al fracking, e sul gas: i giacimenti dell’Arabia Saudita sono importanti per l’economia mondiale, ma non sono più uno snodo indispensabile per la sopravvivenza degli Stati Uniti. Che interesse avrebbe Trump a provocare una crisi nell’area dalle ripercussioni inimmaginabili? Secondo me, almeno all’inizio, non prenderà rischi di questo tipo.
Per molti osservatori Trump è molto interessato a fare affari con i sauditi: questo lo porterà a impegnarsi per realizzare lo Stato palestinese e accontentare l’opinione pubblica araba, che su questo tema condiziona i governi della regione?
È possibile ma non è impellente. Purtroppo gli Stati arabi non si sono strappati le vesti per i palestinesi. I sauditi vogliono avere stabilità e continuare nel loro enorme sforzo di riconversione economica, perché sanno che non potranno vivere per sempre solo sul petrolio. Il loro obiettivo è fare buoni affari con gli Stati Uniti. Poi magari i palestinesi riusciranno a ottenere qualcosa in più con Trump che con Biden. Arabia Saudita e Iran, tra l’altro, si sono riavvicinati, non credo che i sauditi vogliano avere problemi con Teheran; è un altro motivo per dire che sull’attacco all’Iran da parte di Israele bisogna andarci cauti.
Insomma, a Trump il dossier Iran potrebbe non interessare molto?
Guardiamo anche la conclusione della vicenda di Cecilia Sala, con la liberazione dell’ingegnere iraniano: ovviamente c’è stato un via libera innanzitutto di Trump. Se gli americani l’hanno lasciato andare ci sono due possibilità: o contava davvero poco e sequestrandogli il materiale di cui era in possesso hanno ottenuto quello che volevano, oppure, tutto sommato, non era una cosa così importante per loro.
Se ci devono essere nuovi equilibri in Medio Oriente verranno definiti insieme a quelli dell’Ucraina? Le due grandi guerre alla fine sono questioni che vanno risolte insieme in qualche modo?
L’unico legame che c’è è che le tensioni in Ucraina sono venute alla luce durante l’amministrazione Biden, che ha tenuto una linea molto dura, condivisa con gli europei. Trump, invece, fondamentalmente ha detto che Putin non ha tutti i torti. I due hanno un buon rapporto, per cui anche in questo caso non credo che Trump si metterà nei guai con Mosca. Poi si aprirà la questione del posizionamento russo sullo scacchiere internazionale. La narrativa per cui la Russia abbia mire imperiali oggettivamente non regge: è un Paese che ha il PIL pari a quello della Spagna e ha un problema demografico forte.
Però la Russia si è avvicinata alla Cina, che una potenza imperiale potrebbe esserlo. Continuerà su questa strada?
Alla fine la questione è se la Russia continuerà ad avvicinarsi alla Cina, come è stato finora, consentendole di salvarsi dalle sanzioni occidentali. Però Putin è di San Pietroburgo. Leggendo Tolstoj e Dostoevskij si comprende che la lingua che parlavano le élites russe all’epoca degli zar era il francese. C’è un’affinità culturale che spinge Putin a sentirsi più europeo che asiatico. Di certo, comunque, né Putin né Trump hanno voglia di continuare la guerra in Ucraina.
(Paolo Rossetti)
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