Il 10 gennaio è morto un uomo di Dio, come ce ne sono tanti nella Chiesa, che svolgono il loro lavoro tra gli umili senza riflettori: don Enrico Arrigoni. Era nato il 25 aprile 1947 a Sondrio, nella Valtellina, ed era vissuto a Albosaggia. Operaio dopo la scuola, era entrato in seminario a 27 anni ad Arezzo e qui era stato ordinato sacerdote, nella cattedrale, il 19 marzo 1977. Durante gli anni del seminario aveva incontrato don Giussani e l’esperienza ecclesiale di Cl da lui promossa. Questo incontro aveva donato alla sua vocazione una passione profonda, radicale, coinvolgente. Per questo lui, che tanto amava il clima e l’orizzonte delle sue montagne, aveva scelto di andare in missione in Brasile, a Rio de Janeiro.
È qui che l’ho incontrato il 7 ottobre 2008. C’eravamo conosciuti in Italia, a Sansepolcro, la mia terra natale vicino ad Arezzo dove lui abitava. Qui era nata un’amicizia profonda, nutrita dagli stessi ideali. Nel 2008 ero in Brasile, con mia moglie Carmen, per un tour di conferenze a San Paolo, Petropolis, Rio. A Copacabana c’era don Enrico. Non viveva, certo, nello splendido affaccio sulla spiaggia, ma in una delle favelas di questa incredibile metropoli. Quando ci siamo trovati, dopo molti anni che non ci vedevamo, l’ho visto cambiato. Non solo nell’aspetto: i capelli folti e neri erano diventati grigi. Il sorriso, però, era sempre quello. Ciò che era mutato era il carattere. Enrico non era più l’irruente sacerdote, travolgente ed anche, a momenti, intransigente che ricordavo dai giorni toscani. L’affondo nella terra brasiliana, la sua immersione tra gli ultimi della terra, lo avevano reso più umile, attento. Il fuoco si era fatto interiore e l’umanità cristiana più grande. Il luogo dove diceva messa non era una chiesa, ma l’ultimo piano di un supermercato.
A casa sua, in Rua Siqueira Campos 143 di Capocabana, abbiamo pranzato, rievocato il passato, parlato di Rio, della Chiesa, dei giovani, della fede. Con noi c’era padre Alvaro José Assunçao Ignacio Silva che ci accompagnava nel labirinto del traffico di Rio. Dopo pranzo don Enrico ci ha portato a visitare la “sua” favela, quella di Morro dos Cabritos, 10mila abitanti abbarbicati in una collina colma di casupole di terra avvolte dai fili elettrici che pendevano come liane in una fitta boscaglia. Il contrasto con il mare di Rio, i suoi palazzi, gli hotels, non poteva essere più grande. È l’America Latina: grandi ricchezze, grandi povertà.
Nel cuore della favela c’era la creazione di don Enrico, il suo dono ai poveri: una bella chiesa bianca in fase di costruzione ultimata. La futura parrocchia di Santa Cruz. Apparentemente uno spreco in un luogo di miseria. In realtà, come ci spiegava lui, il luogo dell’orgoglio dei poveri, la casa di Dio in cui potevano sentirsi a “casa”, un luogo bello in cui tutti potevano sentirsi accolti. I poveri avevano diritto alla bellezza, ne andava della loro dignità, e la chiesa confermava questo loro diritto.
Don Enrico si era adoperato in ogni modo per la costruzione dell’edificio, era il suo dono alla gente di Morro dos Cabritos. Non era l’unico. Nello scendere con la sua auto dalla collina, dopo averci fatto osservare un personaggio con la pistola ed averci assicurato che i locali non amavano gli estranei ma lui lo rispettavano, ci portò a visitare l’asilo nido della favela. Una sorta di oasi, circondata da un prato verde, tenuta amorevolmente dalle assistenti. Spiccava come un paradiso, al pari della chiesa in costruzione, in uno scenario apparentemente dimenticato da Dio. Don Enrico era di casa, i bambini lo salutavano, gli andavano in braccio. L’atmosfera era di piena accoglienza, di impegno totale ed affettuoso verso i piccoli. Il suo amore a loro, agli abitanti della favela, era profondo. Don Enrico, così legato alla Valtellina e alla Toscana, si era calato con il suo grande cuore nel destino di quella gente, degli ultimi del Brasile.
Quando ci siamo abbracciati, al ritorno, la speranza era di rivedersi ancora. Non è accaduto. Di lui conservo una lettera, del 22 ottobre, in cui mi scrive:
Carissimo Massimo,
ti sono gratissimo per la visita che mi hai fatto nei giorni scorsi e ti accompagno con la mia preghiera nella tua avventura di marito e padre, oltre che di insegnante. […].
Un fortissimo e affettuoso abbraccio.
Domenica scorsa il vescovo ha consacrato la chiesa che terminiamo di costruire. È stato un vero e proprio acontecimiento in cui Jesù è stato il grande protagonista.
Don Enrico
Ora ho saputo della sua morte. Mons. Giovanni Paccosi, attuale vescovo della diocesi di San Miniato vicino a Firenze, che gli fu amico, mi scrive che “era tornato in Italia tre anni fa perché malato di un tumore aggressivo ed era andato ad abitare presso la sua famiglia a Sondrio. La sua fibra fortissima l’ha fatto resistere tre anni. Ha vissuto questo tempo consegnandosi al Signore”. Un amico se ne è andato, un umile servitore di Dio nella vigna del Signore. Don Enrico dal grande cuore e dal sorriso grande come il suo abbraccio.
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