Nel film Hey Joe, Dean Berry, veterano di guerra, affoga nell’alcolismo che è medicina di una vita in decomposizione, tra divorzio e traumi di battaglia. Un giorno riceve un telegramma dalla lontana Napoli, datato 1956, in cui il piccolo Enzo, avuto in una notte di passione negli anni della Seconda guerra mondiale, vuole conoscerlo. Ma è il 1971 e forse quel desiderio è ormai dimenticato. Dean prende un aereo e torna in Italia, alla ricerca di se stesso e di questo figlio, mai conosciuto, che forse riporterà in lui la voglia di vivere.
Ci ha un po’ preso la mano, Claudio Giovannesi, regista romano naturalizzato napoletano, con la città del Vesuvio. Tra i registi della serie “Gomorra”, nel 2019 aveva firmato La paranza dei bambini, ottimo film corale sulla vita di ragazzini allo sbando, tra le strade della città. Tra gli attori del film anche Francesco Di Napoli, “che t’o dico a fa’” napoletano non solo di nome, che qui troviamo nuovamente al fianco di Giovannesi, tra le fila dei delinquenti di turno.
Joe, del titolo, è Dean, un imbolsito James Franco, decadente nel corpo e nell’anima. Uno dei tanti “sbarcati” americani della Seconda guerra mondiale, in cerca di prede tra i vicoli di Napoli. Gli abitanti della città li chiamavano tutti Joe. “Hey Joe” vuoi una donna per la notte? “Hey Joe” vuoi mangiare qualcosa? “Hey Joe” vuoi comprarmi qualcosa con la tua preziosa valuta che qui, nell’Italia povera e devastata degli anni Quaranta ci sogniamo?
Dean è stato una delle migliaia di belle facce sorridenti in divisa da marinaio a conquistare, anche solo per una notte, una donna di Napoli. 27 anni dopo torna in città, per legare un sottile filo con Enzo, il frutto di una notte e di un principio d’amore. 27 anni dopo ha perso la gioventù, la speranza, la famiglia che si è fatto in America. E cerca, a tentoni, un riscatto.
Bel film Hey Joe. Italiano senza fiction (ormai una rarità), porta in scena un incrocio di anime e culture. Da un lato l’America civile, organizzata, predatoria, alle prese con la crisi dei valori e della famiglia, portatrice di sogni, denaro e vie d’uscita. Dall’altro l’Italia misera, ingenua, disarmata, alle prese con la legge della malavita che vince sullo Stato che non c’è mai stato. Due mondi lontani che si incrociano in una scommessa di paternità.
L’America inseminatrice cerca il perdono nell’Italia di Napoli, che proprio Italia non lo è, nel suo animo più profondo. E fatica a trovarlo. Dean non è un padre e non è un eroe di guerra, tantomeno nella vita. L’America non regala mai nulla e le regole di Napoli le decide Napoli, e i suoi padrini. Franco, immobile nel viso e triste negli occhi, grida in silenzio il suo desiderio di ricostruire la sua vita, mentre l’afflato salvifico del colonizzatore lo spinge a traghettare i suoi cari oltreoceano, per trovare la vera salvezza. Ma la salvezza non è mai in un luogo, né fuori di noi.
Bello il racconto di Napoli, seppur con qualche concessione allo stereotipo. Bello il confronto di Napoli di ieri (gli anni ’70) e dell’altro ieri (gli anni ’40). Bello l’assurdo corto circuito tra la logica della libertà democratica (che in fondo fa schiavo) e quello della schiavitù “mafiosa” (che sembra essere l’unico modo per sentirsi un po’ liberi di vivere).
Bello l’incrocio di sogni, affetti, debolezze, paure che i protagonisti smerciano tra di loro negli incontri fugaci che preannunciano l’ineluttabilità del destino, che non fa mai sconti.
Bravi, un po’ tutti.
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