Cronistoria di un cult movie per caso. Ricordiamo oggi l’uscita del film Fandango, di Kevin Reynolds, regista texano formatosi in California alla USC School of Cinema-Television, esordito quarant’anni fa – appunto – grazie all’interessamento produttivo di tale Steven Spielberg, uno che in fatto di cinema di sano intrattenimento ci vedeva (e ancora ci vede) molto lontano.
Reynolds, autore anche di soggetto e sceneggiatura, ambienta la storia del suo Fandango nel natio Texas del 1971, anno di metaforico confine, quasi una conradiana linea d’ombra tra la spensierata gaiezza degli anni Sessanta e il brusco risveglio nel piombo e nel recesso della decade successiva. Lì in mezzo, e sullo sfondo della vicenda, incombe greve la guerra del Vietnam, che per almeno due generazioni di americani ha significato molte e molte perdite, materiali come morali, prima fra tutte – forse – quella irrimediabile dell’innocenza.
Il film Fandango scorre piacevolmente sui binari di uno spavaldo quanto scapestrato road movie. Cinque amici, ricevuto il diploma all’Università di Austin, partono sulla Cadillac di uno di essi alla volta del confine col Messico, per cercare il luogo dove anni prima avevano seppellito un certo Dom. Due di loro hanno appena ricevuto la cartolina precetto per il Vietnam, e il viaggio ai confini del Paese forse prelude a una fuga. Viaggio che diventa occasione per riflettere sulla propria vita, sulla direzione che la medesima sta per prendere sul finire della giovinezza. Viaggio che rappresenta anche quel momento di sospensione da frapporre tra un periodo dell’esistenza e il successivo, una sorta di breve fuga da sé stessi. C’è chi invece è in fuga dalla fidanzata (Kenneth, interpretato da Sam Robards); e poi c’è Lester, che viene coinvolto nel viaggio a sua insaputa, raccolto dormiente dagli amici e rimasto tale per tutto il film (geniale trovata della sceneggiatura).
Dopo varie peripezie e sconclusionate avventure, alla fine si scoprirà che il Dom tanto cercato manco fosse il Santo Graal altri non è che una bottiglia di champagne Dom Pérignon, con la quale il protagonista Gardner (Kevin Costner) invita tutti a brindare a “quello che siamo e a quello che eravamo… e a quello che saremo”. Nella struggente sequenza finale, Kenneth e la ex Debbie, riconciliatisi grazie a Gardner (ex amante di lei), si sposano con una cerimonia improvvisata cui partecipano tutti gli abitanti del villaggio di frontiera presso il giaciglio del Dom. Poi la sposa concede un ultimo ballo all’ex Gardner, un fandango, che diventa il simbolo di un passato rimpianto, di un’età della vita conclusa che non tornerà mai più.
Il notevole pregio del bel film di Reynolds è quello di raccontare una sorta di passaggio tra giovinezza e responsabilità adulte con la giusta dose di nostalgia per l’età che si va perdendo, ma senza cadere nella trappola del sentimentalismo e del triste rimpianto, mantenendo la storia sui toni di una allegra ragazzata, agile e leggera come un ballo ben eseguito. Anche da questo mirabile equilibrio nasce la fama del film, arrivata col tempo. Infatti, i risultati immediati al botteghino non furono dei migliori, e il film fu addirittura ritirato dalle sale causa i pochi introiti. L’interesse verso Fandango ripartì dopo il successo che conobbe al Festival di Venezia, quando nel settembre di quello stesso 1985 il film fu presentato alla Sic, Settimana internazionale della critica, accompagnato dalla presenza intrigante dello stesso Kevin Costner.
Più in generale, film come Fandango diventano dei cult per una fortunata serie di fattori, quasi mai immaginati tanto meno progettati fin dall’inizio da parte dei loro autori. In questo contesto il pubblico è più sovrano che mai. Esso determina a posteriori le pellicole meritevoli del suddetto appellativo di film di culto. La chiave di tutto è lo “star bene insieme” al film, in sua esclusiva compagnia, seguendo il percorso che ci propone, trovando in esso elementi di immedesimazione o di riflessione, oppure ancora di rispecchio delle memorie personali. In ogni caso secondo una semplice adesione empatica a ciò che si vede sullo schermo quasi senza un cosciente sforzo intellettivo. Come diceva Woody Allen in una celebre battuta del suo Manhattan (1979), “il cervello è l’organo più sopravalutato, tutte le esperienze che valgono davvero devono entrare in te attraverso un’altra apertura (se mi perdoni il volgare doppio senso)”. E l’esperienza del grande schermo e del buio in sala, laddove nasce la magia del Cinema, è ancora oggi, nell’epoca dell’immagine onnivora fruibile su aggeggi sempre più piccoli e solipsistici, socialmente forte e personalmente appagante. Provare per credere.
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