Gli eccessi del clima, ma anche quelli della UE, che vieta l’utilizzo di fitofarmaci senza che attualmente ci siano alternative. Per questi motivi, la produzione della frutta fresca in Italia è calata di un terzo in dieci anni, lasciando spazio all’arrivo di merce di produttori extraeuropei ai quali, paradosso dei paradossi, non vengono imposti gli stessi divieti. Per questo, spiega Michele Ponso, presidente della Federazione nazionale di prodotto della frutticoltura di Confagricoltura, i coltivatori italiani sono in grossa difficoltà. Una situazione che produce paradossi a non finire: l’aumento delle importazioni di frutta che viene trasportata da fuori continente significa anche crescita delle emissioni inquinanti, le stesse che la UE vuole abbattere con le sue politiche green. In dieci anni, la produzione delle pere è calata del 42,9%, con un aumento del 26% delle importazioni; le pesche (diminuite del 15,5%) e le nettarine (meno 28,9%) vedono una crescita dell’import del 18%. Lo stesso vale per prugne (+52%) e kiwi (+56%). Nel medesimo periodo, l’Italia ha perso l’11% delle superfici investite a frutta.
I numeri dicono che la produzione della frutta fresca in Italia, in dieci anni, è calata di un terzo. Cosa significa per le aziende del settore?
I produttori si trovano davanti a molte nuove sfide, la prima delle quali è quella del clima. È in atto un cambiamento importante, con eventi straordinari che colpiscono e distruggono le produzioni. Non è più sufficiente avere reti antigrandine o impianti antibrina: abbiamo a che fare con temperature che vanno ben al di sotto delle brinate storiche, che arrivavano a due o tre gradi sottozero, oppure con eccessi di pioggia. Il clima, insomma, è il primo fattore che influisce negativamente sui quantitativi, perché è difficile difendersi da certi eccessi. In più, in questi anni è stata ridotta dalla UE la possibilità di utilizzo di alcune molecole per i prodotti fitosanitari, senza una logica e senza alternative.
Questa nuova situazione quanto ha complicato il vostro lavoro?
Ha messo noi produttori in una situazione estremamente difficile: non abbiamo più strumenti per combattere anche nuove malattie, oltre a quelle che colpivano già normalmente la frutta. Con la globalizzazione sono arrivati nuovi parassiti, come la cimice asiatica e la mosca Suzukii, contro i quali non ci sono assolutamente strumenti.
Usando meno sostanze di questo tipo siete costretti a scartare molta più frutta?
Il quantitativo viene ridotto inizialmente dalla minore produzione di fiori a causa del clima. Poi la presenza di certe malattie fa sì che una parte del prodotto non possa essere immessa sul mercato della frutta fresca e, a volte, neanche impiegato dall’industria della trasformazione. In media, non viene utilizzato dal 20 al 40% della produzione, mentre fino a qualche anno fa si parlava di un 8-10%, massimo 15%, di prodotto che non andava bene per il mercato fresco. In certi anni abbiamo superato anche il 60% di prodotti mandati alla trasformazione. Ma l’industria di questo comparto fa veramente prezzi minimi.
Quanto hanno inciso le politiche green dell’Unione Europea su questa situazione?
Hanno inciso moltissimo, nella misura in cui un 40% della produzione non è più adatta al mercato fresco. A questo si aggiunge l’aumento dei costi, che sono andati alle stelle: sono cresciute le spese per il gasolio, quelle per l’elettricità usata per i pompaggi. In annate molto siccitose, l’irrigazione da questo punto di vista ha inciso molto. Lo stesso discorso vale per le materie prime, i concimi, gli antiparassitari. Molte aziende si sono trovate in estrema difficoltà: ogni anno in Italia c’è uno stillicidio di aziende che smettono. Un po’ perché non c’è ricambio generazionale, ma anche perché le aziende non riescono più a far fronte alle spese.
I consumi come sono cambiati?
Sono calati. Si consuma meno frutta, soprattutto i giovani. Se prima veniva venduta a chili, adesso vengono realizzate confezioni ridotte anche per offrire al consumatore un costo più basso. Dopo il Covid è cresciuta almeno del 30% la percentuale di prodotto confezionato singolarmente, con due o quattro frutti, mentre prima la si vendeva di più sfusa.
La minore produzione europea favorisce l’importazione dall’estero?
Nei punti vendita troviamo lamponi che arrivano dal Messico, mirtilli del Perù, arance sudafricane. Un elemento che suggerisce un altro tema. L’Europa limita l’uso dei fitofarmaci per proporre un prodotto più genuino, ma non impone le stesse regole per la frutta che viene da altri continenti. Ci sono nazioni in cui vengono utilizzate molecole che in Europa sono vietate da più di 20 anni.
Von der Leyen l’anno scorso aveva mostrato di prendere in considerazione le rimostranze degli agricoltori sull’uso dei fitofarmaci. È stato un fuoco di paglia o l’Europa vi sta ascoltando su questo tema?
È stato un fuoco di paglia. Le dichiarazioni della Von der Leyen erano promesse elettorali. Da allora ci troviamo con altre 30-40 molecole che non potranno essere utilizzate. E non c’è modo di ripristinarle.
Ma i fitofarmaci sono veramente così dannosi?
I fitofarmaci sono uno strumento necessario per contrastare fitopatie sempre più diffuse, che spesso il cambiamento climatico rende più aggressive. Ben vengano ricerca e sperimentazione per raggiungere gli obiettivi di sostenibilità attualmente imposti dall’Unione, ma gli agricoltori necessitano di tempo per una transizione che non sacrifichi la produttività.
Il settore si sta ponendo il problema della sostenibilità ambientale, ma ci vuole tempo per risolverlo?
Ma certo, come succede in tutte le transizioni bisogna avere il tempo per farle. Non si può, nel giro di cinque anni, voler eliminare il 50-60% dei principi attivi: è chiaro che poi, come conseguenza, diminuisce la produzione. Così, la frutta che manca viene da fuori Europa.
Paradossalmente si costringono i coltivatori europei a usare meno antiparassitari, ma così aumenta la frutta in arrivo (su aereo o nave) da Paesi extraeuropei, facendo crescere, quindi, anche le emissioni?
Certo. In più, poi, si perdono fette di mercato: se una catena inglese finisce per servirsi dal Sudafrica e si trova bene perché i prezzi sono buoni, e anche la qualità è buona, utilizzando agrofarmaci che qui sono vietati, non abbandonerà più i prodotti sudafricani. Nel 2014, dopo la crisi della Crimea, la UE ha emesso sanzioni in risposta alle quali Mosca ha introdotto delle barriere ai prodotti agroalimentari europei. Paesi come Azerbaijan e Uzbekistan, in questi dieci anni, si sono adoperati in modo tale da diventare loro i fornitori. Una vicenda che è stata causa di una enorme crisi. Nella settimana di chiusura del mercato, in Italia erano tornati 500 camion di ortofrutta.
Le politiche di Bruxelles vi hanno penalizzato così tanto?
Se gli agricoltori vanno in piazza col trattore è perché sono veramente al limite. Il mondo cambia e dobbiamo evolverci, ma dobbiamo farlo con le armi giuste. Non possiamo combattere con arco e frecce se gli altri hanno il Kalashnikov.
Cosa chiedete allora principalmente per rilanciare il settore?
Produciamo meno, ma le spese a ettaro sono sempre le stesse. Si abbatte il vendibile dell’azienda, con un’incidenza al chilo molto alta. Siamo pronti a usare le nuove tecnologie o ad utilizzare le molecole che ci permettono di transitare da una modalità all’altra nel giro di due o tre anni. Molte società hanno investito per registrare e produrre nuovi agrofarmaci che sono stati vietati non molto dopo il momento in cui erano stati immessi sul mercato. In questo modo, le case farmaceutiche non hanno più prodotto niente di nuovo negli ultimi 4-5 anni, perché non riescono ad ammortizzare gli investimenti che fanno.
(Paolo Rossetti)
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