Alle 18 di oggi ora italiana, Donald Trump giurerà di difendere la Costituzione degli Stati Uniti d’America diventando ufficialmente il 47esimo presidente del Paese più ricco e potente del mondo. Un passaggio di consegne che non dovrebbe riservare sorprese, se non quella del maltempo. Ma sarà veramente Trump il protagonista di questa nuova stagione politica americana?
Un’illustrazione pubblicata da The New Yorker in questi giorni sembra metterlo in dubbio: un sorridente Elon Musk, durante la cerimonia, alza la mano giurando di preservare e proteggere la Costituzione. Accanto, il presidente eletto lo guarda corrucciato, con quel piglio accigliato ormai diventato parte del marchio “Trump”.
Dal subbuglio che sta accompagnando questo evento capiamo chiaramente che una fase politica nuova si sta aprendo per gli States. Di conseguenza anche per l’Europa e, forse, per il mondo intero. Tutte le novità politiche a cui Trump ci aveva abituato nel precedente mandato rischiano di impallidire rispetto ai cambiamenti della sua nuova presidenza.
La prima evidente anomalia di questo mandato è l’ipoteca di Elon Musk sul governo federale. Musk, un cittadino sudafricano che prospera come imprenditore sul suolo americano, non ha i requisiti costituzionali per diventare in futuro Presidente degli Stati Uniti. Si dovrà quindi accontentare del ruolo di “presidente ombra”. Il rapporto stretto con Trump gli consente infatti l’accesso a diverse questioni strategiche e, sembra, un posto nel governo come guida del neonato Dipartimento per l’efficienza governativa (DOGE) che si occuperà di “sfoltire” l’apparato burocratico federale.
Il giuramento di Trump, un momento solenne e ancestrale per una comunità politica, sembra quindi aprire le porte del governo politico, delle decisioni pubbliche, all’influenza di un super imprenditore privato, che ha mezzi e risorse per plasmare la società stessa degli Stati Uniti e influenzare gli eventi mondiali a partire dalla sua personale prospettiva d’interesse. Un’anomalia politico-istituzionale che sarebbe il caso di arginare per evitare che influenzi (negativamente) tutti i sistemi democratici occidentali. È bene che la sfera privata degli interessi, che sempre accompagna in qualche modo la vita politica, passi però per le sedi della mediazione democratica – parlamentare prima di tutto – invece di farsi sussurro nelle orecchie del vertice politico di turno, che rischia peraltro di apparire solo come mero prestanome.
Musk non sarà, però, l’unico magnate della tecnologia presente all’insediamento. A Washington oggi ci sarà anche Shou Zi Chew, Ceo di TikTok, nel tentativo di aggirare, tramite il canale politico, la decisione (unanime) della Corte Suprema sull’azienda cinese. Dopo l’entrata in campo di Musk, il legame tra Trump e le aziende “tech” si sta rinsaldando. La corsa a compiacere il tycoon e la nuova direzione del sentimento politico americano è iniziata. In questa direzione va la decisione di Mark Zuckerberg (anche lui presente alla cerimonia) di abolire il fact checking su Meta, onde evitare che il fondatore di Facebook rimanga escluso da possibili affari milionari. Un ultra-capitalismo tecnologico che rischia di mettere a disposizione di Trump (il quale ha già dimostrato una certa disinvoltura nella manipolazione dei fatti) una enorme macchina di propaganda digitale.
Anche il resto dell’ipotetica squadra di governo deve far riflettere. Tra gli altri, Pam Bondi alla Giustizia, già procuratrice della Florida dal 2011 al 2019, al fianco di Trump nell’accusa di impeachment. Il suo compito sarà quello di “ripulire” il Dipartimento della Giustizia dai presunti “nemici” del presidente. Alla Difesa Pete Hegseth, già co-conduttore di Fox News e veterano militare in Iraq e Afghanistan, reduce da una controversa audizione in Senato. Alla Salute Robert D. Kennedy jr, no vax, anticonformista scettico sulle procedure sanitarie (e sulla scienza in generale). Linda McMahon, amministratrice delegata della World Wrestling Federation, all’istruzione: nel suo curriculum nessun nesso con l’educazione o l’istruzione pubblica. Queste e altre nomine completano il quadro di un governo federale esposto a dottrine reazionarie, come se del motto trumpiano “Make America Great Again”, protagonista fosse l’again. Si guarda al futuro puntando sul passato, con un approccio liberista al governo pubblico (meno Stato e più privati) e stressando ricette economico-sociali degli anni 80 e 90.
L’impressione generale è quella di una dimensione economica che trionfa sulla sfera politica, accelerando il mutamento delle strutture democratiche in corso in molti Paesi. Non a caso anche Biden nel suo ultimo discorso da presidente parla del rischio dell’affermarsi in America di una “pericolosa oligarchia”. Se a questo si aggiunge una certa allergia per il diritto internazionale, la tendenza a non riconoscere lo strumento legislativo come neutrale e indipendente, le forzature dei check and balances che le strutture statali impongono, il quadro che si ottiene non è dei più rosei.
Nessuno crede che, ad esempio, il governo americano annetterà il Canada. Le boutade di Trump anche in passato gli sono servite più che altro come strumento di dissuasione o di negoziazione. Certo è che il continuo sdoganare un linguaggio politico che tutto si può permettere, risuona come un’inquietante premessa della mutazione democratica in atto.
In questa giornata ritorna attuale l’ammonimento di San Giovanni Paolo II: “Se non esiste nessuna verità ultima la quale guida ed orienta l’azione politica, allora le idee e le convinzioni possono esser facilmente strumentalizzate per fini di potere. Una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia” (Centesimus Annus, V).
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