La definizione di “intersessuale”, che ricorre su un po’ su tutti i quotidiani a proposito del pugile algerino Imane Khelif, si riferisce ad un cluster di persone che, a prescindere dal loro assetto cromosomico e dalla conformazione esterna dei genitali, “non corrispondono alle nozioni binarie tipiche di corpi maschili o femminili”. La definizione non è né medica né scientifica, ma è quella proposta dall’Office of the United Nations High Commissioner for Human Rights.
È quindi una definizione ideologica, formulata dal mondo politico. Nella realtà, le persone che si designano con il termine “intersessuale” vengono ascritte ad un gruppo composito di condizioni patologiche, caratterizzate da una o più alterazioni di carattere genetico, cromosomico o biochimico. Se il termine intersessuale dovesse mantenere un significato, esso dovrebbe essere limitato a quelle condizioni in cui il sesso cromosomico è incoerente con il sesso fenotipico, o in cui il fenotipo non è classificabile come maschile o femminile. La prevalenza di queste condizioni è estremamente bassa – circa lo 0,018% nella popolazione –, almeno 100 volte inferiore a quanto riportato da un primo report.
La Classificazione Internazionale delle Malattie (ICD) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM) dell’Associazione Psichiatrica Americana e molte riviste mediche classificano i tratti o le condizioni intersessuali tra i “disturbi dello sviluppo sessuale” (DSD). Come tale, la sindrome rientra a pieno titolo nel capitolo della patologia e, per molti casi, è previsto uno specifico trattamento, considerato che la condizione si associa ad altre malattie e ad un elevato rischio per specifici quadri morbosi.
Cosa ha a che vedere l’intersessualità con il caso del pugile algerino Imane Khelif? Apparentemente nulla, perché l’atleta in questione: 1) non manifesta tratti fenotipici che lo apparentino immediatamente al sesso femminile; 2) le analisi condotte dalla Federazione internazionale di boxe (IBA) hanno dimostrato un cariotipo maschile (XY) con elevata secrezione di androgeni.
La decisione del Comitato Olimpico che ha consentito che potesse gareggiare tra le donne è dunque arbitraria, sulla base delle informazioni a nostra disposizione, dato che l’atleta sembra essersi rifiutato di sottoporsi a più specifiche visite mediche. Ci troviamo di fronte quindi ad un organismo maschile in base all’assetto cromosomico – e questo è quello che in punta di diritto consente di assegnare il sesso – in più riconfermato dalla ipersecrezione di testosterone.
Valutare i livelli di questo ormone prima di impegni sportivi, argomento che viene addotto a giustificazione dell’inclusione tra le donne, è però fuorviante per più di un motivo.
Innanzitutto, perché trattamenti anti-androgenici adottati settimane prima della competizione possono artatamente abbassare i livelli dell’ormone, senza limitarne gli effetti sostanziali che si esplicano nel corso del periodo antecedente quello della prova.
In secondo luogo – e questa è l’obiezione cardine – perché gli effetti degli androgeni si sviluppano nell’arco di una vita, risultando critici soprattutto nel corso di determinate fasi dello sviluppo muscolare (pubertà, giovinezza) e neuronale (il testosterone modifica la costituzione delle reti cerebrali). Gli androgeni “scolpiscono” il corpo soprattutto nel corso dei primi 20-30 anni di vita, e la loro soppressione dopo che lo sviluppo morfologico è stato conseguito ha effetti minori.
Per fare un esempio, se sottoponiamo ad orchiectomia (castrazione chimica) un lottatore muscoloso, non è che il giorno (o nei mesi successivi) questo vada incontro ad atrofia muscolare. Ci sono cambiamenti, ma marginali, soprattutto nell’ambito della potenza muscolare e soprattutto quando questa è continuamente sollecitata come avviene per un atleta. Gli uomini vanno naturalmente incontro ad un declino nella secrezione di testosterone (già a partire dai 40 anni), ma questo non incide più di tanto sulle loro prestazioni fisiche. In altri termini, quello che conta è l’esposizione all’azione degli androgeni nel corso delle fasi cruciali di crescita. E questi effetti non possono essere cancellati: sono permanenti.
È stato detto che la condizione di Khelif ricorda quella delle donne affette da sindrome dell’ovaio policistico (PCOS). Anche questo è un accostamento fuorviante e scorretto. Nella PCOS si ha l’aumento intra-ovarico di androgeni che non possono essere correttamente trasformati in estrogeni. Ma a livello sistemico si registra solo un modesto aumento del DHEA che è un androgeno di potenza di gran lunga inferiore al testosterone, che impatta scarsamente sull’apparato muscolare, prova ne sia che le donne con PCOS sono spesso obese (circa il 70%) e con muscolatura flaccida.
Quale è la lezione da trarre da tutto questo? Primo, che è pericoloso parlare di argomenti ultra-specialistici (qui solo brevemente accennati) quando non si dispone delle nozioni di base. E non serve ripiegare su Wikipedia, da cui sono state tratte la maggior parte delle citazioni lette sui giornali.
Secondo: l’ordine biologico riposa su una fondamentale dicotomia: maschio-femmina. Può piacere o no, ma così è. Punto. Ci sono ovviamente eccezioni e fenomeni ai margini che spesso hanno caratteri patologici. Gli antichi, con molto buon senso e un pizzico di humor, li chiamavano lusus naturae. Ma sono appunto eccezioni. E la prepotenza dell’ideologia non può cambiare la realtà. L’essere umano viene progressivamente e sapientemente costruito, giorno dopo giorno, grazie all’azione dei cromosomi e degli ormoni, la cui azione non può essere cancellata dalla sera alla mattina. Siamo frutto di un processo, continuo, la cui sapienza ancora ci sfugge. E che proprio per questo non può essere coartata da chi è malato di ideologia.
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