L’inquietante liturgia dello scambio di ostaggi-prigionieri tra Hamas e Israele s’è ripetuta l’altro giorno con la liberazione-show di quattro soldatesse di Tel Aviv (Karina Ariev, Daniella Gilboa, Naama Levy e Liri Albag), fatte sfilare su un palco, costrette a sorridere, e consegnate infine alla Croce Rossa dopo 477 giorni di reclusione (e subito trasportate in elicottero in un ospedale), e di 200 palestinesi (121 condannati all’ergastolo per l’omicidio di civili israeliani e 79 con pene fino a 15 anni: di tutti questi, 70 sono stati espulsi in Egitto, 114 sono stati rilasciati in Cisgiordania e 16 nella Striscia di Gaza).
Per l’occasione, a Gaza City sono ricomparse decine di militanti palestinesi, volti travisati, mitragliatori a tracolla e bandana di Hamas, con le loro pick-up “tecniche” (sorta di suv armati) tirate a lucido, mentre a Ramallah, in Cisgiordania, in migliaia hanno festeggiato l’arrivo degli autobus che trasportavano i prigionieri rilasciati. Scene inquietanti perché fanno intuire quanto la tregua sia fragile (un contenzioso s’era aperto anche poco prima del rilascio perché Hamas, secondo il protocollo, avrebbe dovuto liberare quattro civili, donne e bambini, e non militari), con passaggi sui quali non si sciolgono i nodi evidenziati fin da subito. Mentre Tel Aviv conferma l’espulsione dal suo territorio di tutti i funzionari dell’UNRWA (l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’aiuto umanitario ai profughi palestinesi, accusata di spalleggiare i terroristi di Hamas, che avrebbero usato proprio un edificio UNRWA per la detenzione di almeno tre ostaggi), in pochi credono davvero ad un ritiro completo delle forze israeliane dalla Striscia, e ancor meno fanno affidamento sull’assunzione di responsabilità amministrativa a Gaza dell’Autorità palestinese (ANP) di Abu Mazen, per suo conto già abbastanza delegittimato e logorato dalla situazione deteriorata nella West Bank.
È proprio la Cisgiordania, adesso, ad essere al centro dell’incendio del Medio Oriente. Pochi giorni fa, mentre Herzi Halevi, capo delle IDF, si dimetteva (sostenendo di “non aver saputo proteggere i cittadini d’Israele” il 7 ottobre 2023), le truppe israeliane proseguivano una massiccia operazione su Jenin, immenso campo profughi e città quartier generale di Hamas in Cisgiordania. Secondo numerosi analisti, le ragioni dell’attacco vanno cercate nella compiacenza di Netanyahu verso i coloni che già stanno assestandosi nella West Bank, e verso la destra (e ultradestra) ebraica, per la quale il “Muro di ferro” (questo il nome dato all’operazione in Cisgiordania) è sinonimo di forza, conquista territoriale, e alla fine negazione di uno Stato palestinese e aspirazione per una “Grande Israele”, dal Mediterraneo al Giordano. È vero che nel trattato della tregua con Hamas non figurano cenni alla Cisgiordania, ma è scontato che le operazioni a Jenin non possono certo agevolare il proseguimento alla fase 2 prevista dalla tregua, anzi potrebbero costituire motivo di uno stallo anche nella liberazione degli ostaggi israeliani. Scrivevamo la scorsa settimana che adesso, con la tregua a Gaza, Bibi avrebbe potuto concentrarsi sugli altri fronti aperti, Libano, Yemen, Iran, ma è proprio ai suoi confini più diretti che vede l’impossibilità di convivere con un’enclave nemica, appunto la Cisgiordania. Il risultato è una guerra permanente, che fa male a tutti, ma forse vale la sopravvivenza politica dello stesso Netanyahu.
La nuova postura statunitense, in ogni caso, non frena affatto l’escalation, anzi. Come riporta il Financial Times, la nuova amministrazione Trump “sarà la più filo-israeliana degli ultimi decenni”, consentendo una mano libera che con Biden non c’era mai stata. E l’altro giorno, da bordo dell’Air Force One, il presidente Donald Trump ha dichiarato che vorrebbe “vedere la Giordania, l’Egitto e altre nazioni arabe aumentare il numero di rifugiati palestinesi per spostare abbastanza popolazione da ripulire l’area devastata dalla guerra nella Striscia di Gaza”, come riporta LaPresse. Sarebbe questo il piano di pace trumpiano per Gaza. Una linea drastica, come da par suo, supportata anche dalle nuove nomine fatte dal presidente di ritorno, tra le quali figura anche la deputata di New York Elise Stefanik, ambasciatrice all’ONU, che non si fa scrupolo di sostenere le “rivendicazioni israeliane di diritti biblici sull’intera Cisgiordania”, criticando contemporaneamente “il persistente pregiudizio dell’ONU contro Israele”.
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