Nel Martin Luther King Day la citazione era forse annunciata, anche se non del tutto. Certamente il memorabile “Dream” del leader assoluto del movimento dei diritti civili non era comparso nell’inauguration speech di Donald Trump del 2017, molto più duro e divisivo di quello pronunciato ieri sera nella Rotonda del Campidoglio di Washington. Un discorso, quello di Trump 1, non memorabile, passato agli annali per una denuncia decisamente poco estetica della “macelleria” che avrebbe afflitto gli americani negli otto anni di Barack Obama.
Ieri invece Trump – a suo agio nell’abito retorico ben tagliatogli addosso dai suoi speechwriter – non ha avuto timore di presentarsi come 46esimo successore di George Washington, continuatore di una grande tradizione di leader americani. E lo stesso richiamo al “sogno (americano)” di King – simbolo dei favolosi anni 60 di John Fitzgerald Kennedy e di Lyndon Johnson – è parso assai meno d’occasione di quanto potesse sembrare.
Da un lato è stato utile al neopresidente per ringraziare gli elettori “neri e ispanici”, comunque identificati come tali (addirittura “black”, neppure con il più recente “afro”, in ogni caso superato e abolito dal politically correct). Ma un messaggio più subliminale è stato probabilmente questo: la pretesa dei dem, portata all’estremo dall’ascesa di Obama alla Casa Bianca, di essere gli unici e veri difensori della minoranze – e più in generale delle classi popolari – è diventata definitivamente fake politics. Se una “rivoluzione” si ripromette di compiere Trump 2 è quella del “buon senso” (la parola-boa dell’intero discorso), in evidente polemica con la pretesa delle élites (non solo americane) di poter imporre ricette esclusive di bene comune.
Trump ha detto di voler riportare “law and order” nelle grandi città americane. Aperto, quasi ostentato il richiamo a Richard Nixon: prima vicepresidente di Dwight Eisenhower, poi presidente rieletto salvo essere costretto a disonorevoli dimissioni dal Watergate. Comunque: prima il Nixon della Guerra fredda, inizialmente sconfitto dal carisma mediatico di Kennedy; poi il Nixon capace di aggiudicarsi infine la Casa Bianca. Non solo per riportare “legge e ordine” nelle piazze americane, anzitutto nei campus universitari. Ma soprattutto per chiudere la guerra in Vietnam (voluta da Kennedy). E per volare infine “in terra incognita” oltre la Muraglia cinese e avviare la distensione con l’Urss.
Fra le ultime, più accorate parole di Trump si è potuto udire: “Nessuno ci potrà mai intimidire” e poi “Affronteremo sempre tutto con coraggio”. Si è sentita l’eco, ormai lontana, del celebre discorso inaugurale di Franklin Delano Roosevelt, nel 1933. “L’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa”, disse il presidente eletto (dem) a un’America sprofondata nella Grande Depressione. FDR riuscì a risollevarla e poi riuscì a vincere la Seconda guerra mondiale contro il nazismo hitleriano e l’espansionismo imperialista giapponese in Asia. Gli americani lo rielessero per tre volte di fila. A Trump non sarà possibile, ma di certo – all’inizio di un suo singolare secondo mandato separato dal primo e alla vigilia dei 250 anni dalla Dichiarazione d’Indipendenza – il tycoon non sembra nutrire ambizioni inferiori a quelle di Roosevelt, giudicato il più grande presidente della storia americana dopo Washington nel diciottesimo secolo e Abraham Lincoln nel diciannovesimo.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.